DUE AMICHE IN CORSO MATTEOTTI, UNA CHE UCCIDE L’ALTRA, IL GIALLO CHE DIVISE I TORINESI NELL’ESTATE 1930, a cura di Massimo Centini.

La vicenda criminale che ha per protagonista Rosa Vercesi, ha tutte le peculiarità per essere il canovaccio di un noir d’altri tempi, con tutte le sue sfumature, con le sue ambiguità e inquietudini.
Accadde a Torino nel 1930, anno in cui morì Arthur Conan Doyle, il creatore di Sherlock Holmes: l’investigatore positivista protagonista di quattro romanzi e tanti racconti, dell’autore e apocrifi, nei quali non sfigurerebbe la vicenda Vercesi.
Comunque ci sono anche tutti gli estremi per trarre i tasselli di una “storia gialla” di quelle di una volta: quelle da feuilleton.
Ma la letteratura è finzione, perlustrazione intellettuale, anche gioco. La realtà è un’altra cosa: lì la violenza è vera, il sangue è sangue e alla fine non sempre i colpevoli sono assicurati alla giustizia.
vercesi 1Entriamo quindi nella realtà di una Torino degli Anni ruggenti, dominati da un ottimismo che poteva anche essere un modo per mascherare l’angoscia. È l’estate del 1930 e la scena del crimine è un’elegante palazzina di corso Matteotti 51, allora però si chiamava ancora corso Oporto e, come oggi, era un’area della città in cui vi erano palazzi abitati dalla borghesia, contrassegnati dalla figura dell’onnipresente portinaia, alla quale non sfuggiva nulla. Ed è proprio una portinaia la prima comparsa nella vicenda che ci accingiamo a raccontare.
Il suo nome era Teresa Caramagno, quel 19 agosto 1930, come ogni mattina, sul presto, era intenta a pulire le scale della casa e quando giunse al quinto piano fu colpita dalla porta dell’alloggio della famiglia Nicolotti: era socchiusa e con la luce all’interno accesa.
Non vi era alcun rumore che potesse tradire la presenza di qualcuno nel suo interno. La portinaia però non approfondì la questione. Avrebbe dovuto farlo, mezzora dopo, ma ancora non poteva saperlo.
Era ritornata in cortile quando nell’androne giunse il commesso de “La falena”, una bottega specializzata in biancheria e situato in via Santa Teresa 12, che Vittoria Nicolotti gestiva con una socia.
La signora Caramagno si ricordò della porta socchiusa e giunse alla conclusione che era necessario indagare. Risalì al quinto piano e entrò nell’alloggio… Scoprì subito la “signorina”: era sul letto, nuda, sul corpo una coperta. Era segnata da numerosi lividi e graffi, vi erano anche tracce di morsi: probabilmente l’omicidio fu preceduto da una lotta violenta.
Gli agenti di polizia, chiamati dalla portinaia, stabilirono che la donna era morta per strangolamento; poi ebbero modo di sapere, da alcuni inquilini del palazzo, che nel corso della notte furono udite delle donne litigare, qualcuno affermò anche di aver sentito dei lamenti e forse grida di aiuto. Nessuno di loro pensò però di risalire all’origine di quei rumori.
Mentre Vittoria Nicolotti, trentadue anni e un fisico da ragazzina, venne trasferita all’obitorio, gli inquirenti cercarono di individuare nell’appartamento qualche indizio che potesse indicare una traccia concreta da seguire. Nelle stanze regnava il caos: evidentemente la lotta e poi la ricerca di qualcosa, da parte dell’assassino, avevano messo tutto a soqquadro, rendendo più difficile il lavoro degli agenti.
vercesi 2La Nicolotti fu uccisa quando in casa era sola: il padre era morto da alcuni anni, mentre la madre era ospite presso dei parenti sul Lago Maggiore e il fratello viveva a Chiomonte, in Valle di Susa, dove lavorava come capostazione.
Indagando sulla ristretta cerchia di conoscenze, saltò fuori che la vittima doveva trascorrere la serata del 19 agosto (quando venne uccisa) con l’amica Rosa Vercesi. Un indizio prezioso che poteva rivelarsi di grande interesse per ricostruire le ultime ore di Vittoria.
Le Vercesi venne avvicinata dagli agenti nel suo alloggio di via Madama Cristina: si dimostrò un “po’ strana”, ma sulle prime non sembravano esserci elementi per allertare i poliziotti. La donna li seguì in commissariato portandosi dietro la pelliccia: un fatto molto insolito se si considera che era agosto e il termometro, a Torino, raggiungeva anche i 35 gradi, con punte di 40!
In questura la Vercesi non ebbe difficoltà a ricostruire la serata trascorsa con l’amica: una rapida cena consumata nella casa di corso Oporto, poi in tram per andare a Parco Michelotti, lungo il Po, tra il ponte di piazza Vittorio e quello di corso Regina Margherita, per assistere a uno spettacolo di varietà.
Durante il percorso, le donne si resero conto che ormai era troppo tardi e quindi decisero di scendere, all’altezza della stazione ferroviaria di Porta Nuova, per fare due passi. Per un momento pensarono di concludere la serata al cinema, ma poi l’idea fu abbandonata perché la pellicola proiettata al “Cinepalazzo” (in seguito diventato il “Corso”), Jim Mistero, non era di loro gradimento.
Venne così stabilito di rientrare a casa della Nicolotti, a piedi. La ricostruzione era credibile: infatti, il cinema si trovava a due passi dalla stazione ferroviaria, dove le donne erano scese dal tram. Inoltre, anche i tempi indicati dalla Vercesi erano compatibili con l’itinerario seguito. Dal cinema, situato in via Carlo Alberto, all’angolo con corso Vittorio Emanuele II, le donne avevano seguito l’illuminata arteria fino a corso Re Umberto, dove svoltarono a destra e in breve giunsero in corso Oporto. Le donne salirono in casa, Rosa e Vittoria avrebbero dovuto parlare di affari…
Infatti la Vercesi, che oggi sarebbe indicata come un “consulente finanziario”, svolgeva il delicato compito di gestire i beni bancari della vittima.
In parole povere parlarono di soldi, argomento che, come è ben noto, spesso è destinato a degenerare in discussioni e litigi. Quella sera invece non ci furono screzi, almeno questa fu la versione fornita dalla Vercesi.
Disse anche che quando uscì dalla casa in compagnia dell’amica, che la volle accompagnare al tram, notò un uomo davanti al portone. Dal mezzo pubblico, osservò Vittoria rientrare con quell’uomo misterioso… Forse era lui l’assassino?
Di certo si trattava di qualcuno che Vittoria conosceva molto bene, in caso contrario non si poteva comprendere per quale motivo l’avrebbe fatto entrare a quell’ora di notte.
Mentre Rosa Vercesi proponeva la sua versione, le indagini necroscopiche stabilirono che Vittoria aveva lottato con forza contro il suo aggressore: ne erano traccia concreta le piccole parti di pelle e di sangue coagulato presenti sotto le unghie della vittima.
Gli inquirenti decisero di ricercare sul corpo della Vercesi delle escoriazioni e ferite da relazionare a quelle rinvenute sul cadavere. L’idea del controllo incrociato sembrava quella vincente: infatti sul corpo della donna vi erano graffi e tagli, alcuni dei quali molto profondi,. La donna disse di essersi ferita cadendo in un cespuglio di rovi durante una gita con il fidanzato; poi si accusò anche una spilla mal fissata alla camicetta… Erano prove effettivamente un po’ debolucce e così venne trattenuta in carcere.
In realtà Rosa un ragazzo l’aveva, si chiamava Arturo Pistamiglio, lavorava alla Banca Commerciale Italiana: abitava a Pino Torinese e aveva una casa di campagna a San Michele di Bra, nel Cuneese. Non ebbe alcuna riserva nell’affermare che la donna era la sua fidanzata. Disse anche che loro, abitualmente, nei giorni festivi, avevano l’abitudine di trascorrere lunghe ora in barca sul Po, a Torino.
Mentre Rosa era alle “Nuove”, nella attesa che, in un modo o nell’altro, la situazione si sbloccasse, le venne trovata addosso una lettera che aveva scritto ai suoi familiari. Una lettera molto compromettente, poiché indicava come far sparire una prova.
Ecco il contenuto della lettera incriminata: “Appena vi sarà possibile avere le chiavi di casa mia, vi prego di far scomparire dalla plafonnière della mia camera da letto alcuni gioielli che vi ho nascosto e che aveva dimenticato la mia amica la sera che venne a casa mia. Lasciò la penna, dopo averla adoperata per scrivere un biglietto; l’anello se l’era tolto per lavarsi le mani e la spilla per togliersi l’abito. Quando siamo uscite, non ce ne siamo accorte subito. Ce ne siamo accorte quando eravamo già in corso Vittorio Emanuele, ma non siamo ritornate indietro perché era già troppo tardi.
La mia amica mi disse che li avrebbe potuti mettere coi titoli: sarebbe venuta a ritirarli mercoledì. Siccome c’erano sempre gli operai che giravano per la casa, li ho messi nella plafonnière per sicurezza. Dopo il fatto, data la mia posizione già tanto compromessa, non ho parlato per non aggravare la situazione. Speravo di uscire e di restituire alla famiglia ogni cosa. Ma oggi non lo posso fare perché mi attirerei una colpa che, lo giuro, non ho commesso. La mia buona azione potrebbe essere male interpretata (…) Se oggi mi trovassero quegli oggetti, mi farebbero andare all’ergastolo e la mia innocenza non varrebbe nulla (…) Distruggete questo biglietto, subito. Dopo aver avuto le chiavi, lasciate passare qualche tempo in modo che non corriate il rischio di essere sorpresi. E serbate il segreto più assoluto: badate a non dire nulla a nessuno, qualunque cosa accada. Data la mia posizione, devo negare a qualunque costo. Non dite nulla neppure all’avvocato, potrebbe fare la spia”.
Quella lettera costituiva un elemento di grande importanza per gli investigatori, soprattutto quando gli agenti ritrovarono i gioielli della Nicolotti nel lampadario della casa di via Madama Cristina.
Alla Vercesi venne chiesto perché avrebbe dovuto nascondere solo i gioielli dell’amica e non i propri: lei non ebbe difficoltà a dimostrare che ciò era determinato dal fatto che lei aveva da tempo affidato i suoi beni al Monte dei pegni…
In effetti la donna era in condizioni finanziarie drammatiche: senza un soldo, senza neppure quelli dell’amica di cui avrebbe dovuto essere l’oculata amministratrice.
In seguito, nel corso del processo, la Vercesi disse: “nella mia vita ho fatto tanti mestieri, prima in una ditta di radiatori, quindi in una fabbrica di scatole. Ho fatto anche la soffiatrice alla vetreria Zimbelli e per due anni mi sono occupata di corrieri. Da Arpino, invece ho fatto la magazziniera per quattro anni e poi la viaggiatrice per nove mesi. Fui impiegata da quattro anni da Genovesio e poi da Gilli. Infine, ho avuto funzioni di cassiera e poi di procuratrice nell’agenzia di cambio del ragionier Silvio Brena, fino al mese di febbraio del 1930. Mi erano corrisposte dalle 900 alle 1000 lire mensili e nel mio ufficio collaborai a operazioni per milioni di lire”.
Resta il fatto che quando la Nicolotti fu uccisa, la Vercesi, che si doveva occupare dei suoi beni, era totalmente priva di denaro. Forse, la notte dell’omicidio, Vittoria voleva indietro i suoi soldi. Rosa non era però in grado di far fronte agli impegni: probabilmente la causa dell’omicidio. Poteva essere una motivazione credibile: per i giudici fu l’unica.
Questa la ricostruzione dei fatti secondo l’accusa, poi avvalorata dalla giuria e dai giudici.
La Vercesi trascorse la notte in casa dell’amica – si disse che tra le donne vi fosse un legame saffico, ma su questo aspetto non vi è chiarezza – dopo averla uccisa, intorno alle sei del mattino, uscì di casa con un impermeabile con il bavero alzato e cappello. Aveva con sé anche il pentolino per il latte.
Si fermò al chiosco dei giornali e acquistò due quotidiani, poi andò verso il Parco del Valentino. Quando giunse in via Ormea, nascose in un portone l’impermeabile e le chiavi di corso Oporto; poi continuò fino al Parco, dove quasi certamente si liberò del resto del travestimento. Solo la borsetta venne ritrovata quasi subito da un uomo che aveva portato il suo cane a correre nei vialetti del Valentino. Quella borsetta apparteneva a Vittoria Nicolotti.
La Vercesi aveva quindi finto di essere la sua vittima, per riuscire a passare inosservata ed uscire dalla casa di corso Oporto senza destate sospetti. Certamente era riuscita nel suo intento, solo che, con grande superficialità, aveva lasciato dietro sé tracce facilmente individuabili.
Rosa Vercesi venne condannata all’ergastolo senza ottenere alcuna attenuante. La città era divisa tra innocentisti e colpevolisti: certamente sulla vicenda pesava non poco quello strano rapporto che legava le due donne. C’era qualcosa di perverso in quel crimine, un quid di alterità che faceva volare la fantasia e suscitava emozioni forti.
E altre emozioni forti sarebbero trapelate alcuni anni dopo: l’imputata avrebbe colpito la vittima, dopo aver assunto una forte dose di cocaina. La droga sarebbe stata fornita dalla Nicolotti che, sempre secondo la Vercesi, era considerava uno strumento di seduzione per attirare a sé l’ignara Rosa. Lei non volle che questa versione fosse portata in tribunale: sapeva dell’impossibilità di dimostrarla e quindi fece in modo che il suo avvocato ne parlasse solo in seguito.
Rosa affrontò con coraggio e rassegnazione il carcere: fu reclusa in alcuni istituti fino al 1959, quando ottenne la grazia. Aveva alle spalle quasi trent’anni di prigione.
Si trasferì a Trani dove, quando si trovava nel carcere di quella città, aveva stretto amicizia con una sorvegliante del penitenziario. Forse l’unica amica che aveva. Lì conobbe anche l’anziano zio della donna, con il quale si sposò nel 1962.
Tredici anni dopo rimase vedova, invecchiò precocemente, provata nell’anima e nel fisico. Morì nel 1981, nell’ospedale di Trani.
Morì sola e dimentica. Almeno questo era quello che credeva. Perché, come ha scritto Guido Cernetti in La vera storia di Rosa Vercesi e della sua amica Vittoria, la vita di questa donna è entrata in profondità nella memoria collettiva: “ha rotto la diga del perbenismo (…) chiamando su di sé la vendetta e la compassione a un tempo della Società, ha fatto parlare di lei giornali e cattedre universitarie, è diventata pupilla del tragico, un caso, il caso Vercesi, che con la sentenza non sarà chiuso”.

Giusi AUDIBERTI. “Dietro a ogni grande uomo c’è sempre una grande donna” pittrice Daphne Maugham, moglie di Felice Casorati.

daphneDaphne Maugham nasce a Londra il 18 dicembre 1897, nipote per parte di padre dello scrittore inglese William Somerset Maugham, mentre discende da parte materna da una famiglia di pittori (suo nonno, Heywood Hardy, era un pittore piuttosto noto).
Il padre di Daphne era avvocato e diplomatico addetto all’ambasciata britannica a Parigi, la madre Mabel (chiamata in famiglia Beldy) era musicista e pittrice, la sorella Clarissa era anche lei pittrice e l’altra sorella Cynthia danzatrice classica, allieva di Alexandre e Clotilde Sakharoff.
La sua era dunque una famiglia dell’alta borghesia cosmopolita e colta, interessata particolarmente alle arti, che viveva a Parigi e trascorreva le vacanze vicino a Saint-Malo in Bretagna.
A Parigi la giovane Daphne frequenta la prestigiosa Académie Ranson diretta da Paul Sérusier e Maurice Denis (due fra i più importanti pittori “Nabis”)1 , poi segue le lezioni di un’interessante artista polacca, oggi dimenticata, Mela Munter. Compie contemporaneamente studi linguistici; nel 1921 espone un’opera al Salone d’Autunno di Parigi e l’anno successivo va a Londra per perfezionarsi alla Slade School of Arts dell’Università londinese.
Pur essendosi formata a contatto con la pittura impressionista e post-impressionista francese, Daphne conosce bene le tensioni classiciste che permeano in quel periodo la cultura europea.
Nel 1925 vede il ritratto di sua sorella Cynthia (che soggiornava a Torino per esibirsi nel teatro privato di Riccardo e Cesarina Gualino (2), ritratto dipinto da Felice Casorati, uno dei protagonisti di quello che veniva chiamato allora “Neoclassicismo” e rappresentava un “ritorno all’ordine”; Daphne decide allora di continuare i suoi studi sotto la guida di Casorati: si trasferisce perciò a Torino, alla fine del 1925 o agli inizi del 1926.
Raccontò Casorati: “Una trasformazione radicale doveva subire la mia vita… Non so in quale articolo di quel tempo ho lette queste parole: un angelo appare nei quadri di Casorati… Daphne viene nella mia casa e prende silenziosamente dolcemente semplicemente il suo posto accanto a mia Madre e alle mie sorelle… Credo che io – il suo maestro – abbia avuto da lei la migliore e più sana lezione umana ed artistica… Finalmente io e le mie care donne usciamo dalla vecchia casa perennemente fasciata di ombre e ci appartiamo a Pavarolo nella casetta bianca modesta modesta da cui non riusciremo mai a toglier l’odor di fieno e di stalla… Questa era la medicina mentis che invano avevo per tanto tempo cercata… stavo raggiungendo piano piano attraverso vicende di dolore e di gioia, attraverso l’ignoranza e la cultura, gli errori e le conquiste ma soprattutto attraverso la pittura la mia maturità umana. Ma certo da allora il mio lavoro diventa più sereno, più sicuro e più calmo… Ripresi la mia vecchia cassetta e ritornai, come ai tempi della fanciullezza a girovagare per le composte ordinate dignitose colline di Pavarolo. Ammiravo Daphne che dipingeva con semplice gioia – la gioia le trasfigurava il viso – i suoi piccoli paesaggi. Essa viveva momenti di vero rapimento, dimentica di sé, di me, di tutto…”.3
Nel 1926 Daphne Maugham diventa dunque allieva di Felice Casorati e frequenta il suo studio di via Galliari (frequentato anche, fra gli altri, da Lalla Romano, Albino Galvano, Sergio Bonfantini).
Casorati si dedica alla scuola con grande generosità, per lui l’insegnamento é un modo di conoscere meglio se stesso, ma soprattutto ama vedere i suoi allievi crescere e formarsi autonomamente: “Mi é sempre piaciuto insegnare – dirà il pittore in un’intervista del novembre 1962 – avere vicino a me dei giovani che ascoltano la mia parola, dei giovani che vedo incominciare a dipingere, e poi vedo come si sviluppa a poco a poco questa forza intima…”.
E generosamente Casorati invita i suoi allievi a partecipare alle proprie mostre. Così, tiene con loro (e fra essi con Daphne) una collettiva a Milano nel 1929, un’altra nel 1930 a Genova e nello stesso anno espone nella stessa sala con loro alla Biennale di Venezia.
In quell’occasione Daphne presenta “Persone nello studio” accanto a “La lezione” del suo maestro Casorati.
Ha scritto Elena Pontiggia (nel catalogo della mostra “Arte in due”, Torino Palazzo Cavour, 2003): “Il soggetto dei due quadri é lo stesso, la scuola, e identico é l’ambiente rappresentato: lo studio torinese di via Galliari, affacciato su una casa dal tetto triangolare. Nell’opera di Daphne le reminiscenze casoratiane sono molte, come si vede soprattutto nella modella sdraiata, nella donna sulla seggiola e nella natura morta sul tavolo. Eppure c’é una sostanziale differenza fra i due dipinti. In Casorati la composizione é centripeta, si concentra sulla figura del pittore, che é il vero protagonista della scena e compare con la tavolozza davanti al cavalletto. In Daphne invece la composizione é centrifuga: al centro dell’immagine non c’é il pittore… e l’attenzione é rivolta all’insieme delle figure che entrano nello studio. L’atelier si apre fino a includere le case del quartiere, una donna sulla soglia, il giornale… Se per Casorati lo studio é un tempio, per Daphne é un crocchio di persone, un frammento di esistenza.”
Se é dunque evidente nella pittura di Daphne l’influsso casoratiano, tuttavia la pittrice sviluppa negli anni successivi una sua vena individuale e si avvicina ai “Sei di Torino”4 , approfondendo la sua ricerca sul colore.
Nel 1928 Casorati aveva dipinto un importante ritratto della sua allieva Daphne Maugham: una giovane donna che siede assorta, collocata come una statua in una nicchia sullo sfondo di una tenda; il rotolo di carta alla sua destra allude allo studio di un artista, l’album di fotografie posato accanto a lei raccoglie un vivace gruppo di figure. Il dipinto unisce l’atmosfera rarefatta dell’atelier all’insinuarsi in essa dei richiami della vita.
Il 9 luglio del 1930 Felice Casorati e Daphne Maugham si sposano; nel 1934 nasce il loro unico figlio, Francesco.
Il periodo in cui Daphne entra nella vita di Casorati alla fine degli anni Venti vede un sensibile cambiamento nella ricerca pittorica dell’artista piemontese. Lo stesso Casorati ha dichiarato: “Attorno al ’28 la mia pittura sembra aver subito una specie di lavacro… Il colore, se non ancora vivace é indubbiamente più chiaro, più limpido, più accogliente… Sembrò allora che io avessi scartato ogni schema formale per abbandonarmi alle lusinghe di una piacevole colorazione”.
Verso il 1929 il periodo “neoclassico” casoratiano va esaurendosi, e i suoi soggetti dal contorno preciso e nitido, le sue modelle simili a statue si ammorbidiscono in linee più morbide e sfumate, mentre il mondo isolato e quasi asettico dell’ atelier si apre a immagini della vita quotidiana e i colori si fanno più caldi e luminosi.
Un esempio di questo cambiamento é “Aprile” (esposto alla Biennale del 1930): una giovane donna é colta nell’intimità della toeletta mattutina, in un contesto di grande semplicità e in un atteggiamento del tutto quotidiano.
Quanto all’attenzione al colore in questa fase del suo percorso artistico, Felice Casorati può giungere a esiti pittorici affidati unicamente alla ricerca cromatica, come in “Varigotti” del 1930. Aprendo una breve parentesi, osserviamo come il delizioso borgo ligure (già molto amato da altri pittori) sia stato prediletto da Felice e Daphne Casorati per le loro escursioni o i loro soggiorni marini: ne é testimonianza, per esempio, una foto che li ritrae sorridenti, con una coppia di amici, sulla spiaggia varigottese nei primi anni Trenta.
Certamente il mutamento della pittura di Casorati in questo periodo non é riconducibile a un unico fattore, né a un unico influsso (tantomeno di una sola persona): tutta l’arte italiana alla fine degli anni Venti tende a un ritorno al pittoricismo e a un avvicinamento all’arte europea, soprattutto a quella francese. Tuttavia, fra le molteplici componenti che determinarono il cambiamento di gusto e di poetica di Casorati non si può prescindere dal ruolo che ebbe la presenza accanto a lui di Daphne Maugham, con la sua cultura europea: lei, inglese di nascita e francese di formazione.
Non a caso nel 1935 (un anno dopo la nascita del figlio Francesco), Felice Casorati dichiarò: “Vorrei dipingere persone e cose semplicemente come le vivo e le amo: i miei sforzi d’oggi sono quindi intesi a liberarmi da tutte le teorie, le ipotesi e gli schemi, i gusti, le rivelazioni, e le restaurazioni dei quali con generosa avidità si é avvelenata la mia giovinezza”.5
Daphne ha certo influenzato il marito con le sue qualità pittoriche e la sua cultura europea, ma lo ha fatto in particolare nelle opere en plein air.
Timida e riservata per carattere, Daphne Maugham é comunque vissuta un po’ nell’ombra del marito, anche quando la loro casa era un importante centro della vita intellettuale e artistica di Torino, frequentata da Lionello Venturi, Carlo Levi, Mario Soldati, e dai musicisti Casella e Ghedini.
E’ stato Lionello Venturi a insistere sull’importanza e sul significato del lavoro artistico della Maugham nell’ambito dell’arte italiana del secondo dopoguerra, scrivendo nel Catalogo di un’esposizione di pittura italiana a Londra nel 1946: “Daphne Maugham ha apportato la sua ampia conoscenza delle tendenze artistiche internazionali alle ricerche italiane.”
La sua carriera di pittrice é segnata da numerose esposizioni pubbliche, anche di rinomanza internazionale: ha esposto alla Biennale di Venezia molte volte fra il 1928 e il 1950, alla Quadriennale di Roma fra il 1935 e il 1965 e a Pittsburgh dal 1928 al 1939, oltre a molte gallerie private, ottenendo numerosi premi.
Il figlio Francesco, anch’egli pittore, ha ricordato che l’insegnamento della pittura ricevuto dalla madre é stato fondamentale per lui dal punto di vista tecnico, e che la madre era assai più disponibile del padre, che invece difendeva gelosamente il suo isolamento nell’ atelier e il suo bisogno di concentrazione.
Della madre, Francesco Casorati ha rilevato il legame con la pittura dal vero e il lavoro col modello, e se pure ha riconosciuto il forte influsso di Casorati su di lei, ha sottolineato che la madre si era comunque molto avvicinata ai “Sei di Torino” e aveva conosciuto anche momenti di rifiuto della lezione casoratiana.
Tuttavia il figlio ha raccontato che Casorati aveva grande stima della moglie come pittrice, che non aveva nei suoi confronti il minimo senso di superiorità e che chiedeva spesso il suo consiglio, per esempio per la scelta delle opere da esporre in una mostra: “ne aveva insomma una profonda considerazione intellettuale”.
Un simpatico ricordo del figlio Francesco é quello dei genitori che andavano insieme a dipingere in campagna, nei dintorni dell’amata Pavarolo.
Daphne Maugham ha continuato sempre a dipingere, per tutta la sua vita, anche dopo la morte del marito (avvenuta nel 1963), come non aveva interrotto il lavoro artistico dopo la nascita del figlio.
La pittrice é morta a Torino, dopo una lunga malattia, nel 1982.

1 Col nome “Nabis” si indica un gruppo di artisti parigini dell’avanguardia post-impressionista, attivi alla fine del XX e all’inizio del XXI secolo; i capifila del gruppo furono Sérusier e Denis. I Nabis attribuivano importanza soprattutto alla disposizione dei colori, mentre i soggetti (pur essendo in secondo piano) si riferivano prevalentemente a temi della quotidianità.

2 Riccardo Gualino (Biella 1879- Firenze 1964) é stato imprenditore, mecenate e collezionista d’arte : amico del critico Lionello Venturi, fu sostenitore di artisti come Felice Casorati e i “Sei di Torino”; raccolse un’importante collezione, la cui sezione di arte antica fu donata alla Galleria Sabauda di Torino; condivise con la moglie Cesarina il mecenatismo e la passione per il teatro. Avverso al fascismo, fu inviato al confino; rilasciato nel 1933, fu a Parigi e poi si stabilì a Roma. Si occupò anche di cinema, e produttori come Carlo Ponti e Dino De Laurentiis lo considerarono il loro maestro.

3 Conferenza tenuta a Pisa il 26 maggio 1943.

4 La definizione si riferisce a un gruppo di sei pittori formatisi a Torino alla scuola di Casorati, che nel periodo 1928-1931 seguirono un percorso artistico comune. Si tratta di Gigi Chessa, Carlo Levi, Nicola Galante, Francesco Menzio, Enrico Paulucci e Jessie Boswell (l’unica donna del gruppo). I “Sei di Torino” furono stimolati dai critici Edoardo Persico e Lionello Venturi e sostenuti finanziariamente dal collezionista Riccardo Gualino. La loro parola d’ordine era “Europeismo” ed essi presero le distanze dall’arte di regime, retorica e nazionalista; la loro scelta estetica confluiva in quella politica.

5 Catalogo Quadriennale di Roma, 1935.

Lettura proposta dall’Associazione AMICO LIBRO.

IL CICLISMO E CRIMINE – Il cicloanthropos secondo Lombroso, di Massimo Centini.

Cesare Lombroso (1835-1909) fu uno scienziato curioso, molto attento a quanto lo circondava e interessato a osservare la società per cogliere aspetti che eventualmente gli avrebbero consentito di corroborare le sue tesi sull’uomo delinquente, sll’atavismo, ecc. ecc. Abbiamo un esempio lampante di questa attenzione di Lombroso nel mare magnum che costituisce la sua bibliografia, costituita da studi scientifici e saggi per riviste accreditate, ma anche da molti articoli per riviste popolari e di grande diffusione. In questo poliedrico universo ci imbattiamo in uno scritto alquanto originale che ancora una volta dimostra l’eclettismo dello studioso: “Il ciclismo nel delitto”…

Leggi tutto nell’allegato: Il ciclismo e crimine

UN MUSEO CHE RACCONTA STORIE di borghi, storie del cuore, a cura di Flavia Vaudano.

Alla scoperta di itinerari insoliti – Pino Torinese, paese della contadinanza

Un museo che racconta storie di borghi,storie del cuore.

Da quasi vent’anni vive a Pino Torinese un piccolo ” Museo delle Contadinerie “ e della cultura materiale, un museo che gioca le sue relazioni sul dinamismo del rapporto tra generazioni, che raccoglie oggetti di tradizione contadina senza criteri di bellezza espositiva, ma con l’ambizione di raccontare storie vissute di famiglia e di riprodurre gli ambienti reali della cascina,della scuola rurale, del paese contadino dall’ottocento in poi. Ogni piccola cosa esposta aggiunge sottovoce qualcosa per ridare vita alla devozione popolare della campagna, alla storia della piccola patria locale, ai suoi usi e costumi.
vaudano 2Quasi una sfida allo smarrimento della memoria perché i giovani scoprano che senza la ricerca delle radici non c’è futuro. Al ” museo delle contadinerie ” la raccolta, il restauro, l’ambientazione degli oggetti sono occasione di condivisione e di passione per l’uomo e per il suo ambiente naturale. Ci si può arrivare – e questo è solo un discorso da avviare al termine del confinamento da virus – lungo strade asfaltate e banali nella loro comodità,oppure con qualche disagio in più, affrontando sentieri nero-asprigni di more, divorati a mezzo dalla menta di strada e resi preziosi dal cremoso merletto del fior di sambuco; in questo caso, però,si deve partecipare a una delle tante camminate raccontate e con merenda contadina offerta che il Museo ha sempre organizzato e che riprenderà a proporre.
Il paese offre tanto di più: anche un Planetario con Museo dello spazio e una secentesca chiesa dell’Annunziata, scrigno di tesori che svariano dal Cristo ligneo del ‘400 a strepitosi stucchi dei Maestri luganesi (qui in cantiere tra Seicento e Settecento per impastare insieme artigianato e arte), dall’organo Vegezzi Bossi del 1858 alle oreficerie settecentesche, dai capolavori musivi della Scuola di Cartagine all’icona della Madonna incinta in foglia d’oro su tavola lignea.
Senza contare la dolce bellezza dei grumi di case seminate a spaglio sui declivi morbidi della bella collina e le villette a gregge nelle valli prative; e i borghi con i filari di vigna, arditi di affaccio sui sottili crinali che in controluce sembrano quasi appoggiati sul lontano Monviso.
Per un lieto futuro andare, con lento passo e fantasia sbrigliata, li ricordiamo tutti: S.Felice, che di maggio, all’improvviso, si fa bianco e rosso con le ciliegie, Centocroci con la sua eco inquietante di briganti e di agguati, di santi e piloni, Mongreno, appartata in meravigliose stradine di quiete, Podio, fiera dei suoi valori comunitari, la Balbiana, ancora frusciante di volpi, lepri e scoiattoli, il Satellite con le sue estrose intuizioni di architettura degli anni ‘60, il Centro con un sagrato aperto su 100 paesi dell’astigiano (servono occhi d’Argo e giornate di limpida magia), la valle dei Miglioretti con un antico affresco di cronaca sacra del 1676 e la valle dei Ceppi, quasi un paese dentro al paese, fiero del suo museo contadino.
Museo che ha deciso di scavare a fondo nei ricordi e nel cuore per regalare ai lettori cronache lontane e notizie di oggi per esplorare insieme le tracce gustose di una civiltà contadina che, in fondo, appartiene a ciascuno di noi.

STORIE PINESI : DAL “GALUCIO” A TANTO ALTRO
vaudano 1C’era una volta a Valle Ceppi un prato, il prato dei cannoni. Quelli di legno, siamo al tempo della seconda guerra mondiale, con la bocca di fuoco rivolta al cielo per ingannare gli aerei, americani o tedeschi non si sa, quelli che bombardavano per intenderci, senza sottilizzare se colpivano modeste abitazioni rurali o casolari rifugio di partigiani.
C’era una volta un prato ai Tetti Vasco, fiorito di giallo tarassaco e di blu salvia prativa.
C’era una volta un prato, campo di giochi per tutti i bambini della valle, dal mattino fino a sera, dopo la guerra s’intende.
E lì, tra capriole profumate di menta e filastrocche al sapor di sambuco, passavano veloci le ore belle di tre bambini, i Tarraran: Daniele, futuro diplomato alle Arti Bianche di Torino e poi giovane imprenditore di successo e le due sorelline gemelle, Adriana con un destino da ostetrica prima e suora alcantarina poi e Loredana, futura biologa e cavaliere della Repubblica per meriti scientifici.
Erano loro i bambini di una famiglia insolita, destinata a lasciare il segno nel piccolo borgo agreste, ma non troppo, visto che al tempo del “c’era una volta” ospitava un cinematografo e una fabbrica di fuochi artificiali.
Torniamo alla famiglia Tarraran che può vantare nella parentela materna una neurologa e una amministratrice d’azienda, senza contare un papà trasformato da metalmeccanico Fiat in esperto di panificazione. Una famiglia insolita, dicevamo, anche per l’innata umiltà che fino a pochissimo tempo fa vedeva al bancone, a servire una clientela sempre più numerosa e contenta, due laureate, sorridenti e gioiose.
E di sorridere vien proprio voglia se gli occhi cadono sulla scritta al posto di infornatura del titolare che dice ironicamente ”genio al lavoro”.
Ebbene, in questo speciale negozio, con il forno a vista e valanghe di pagnotte e pagnottelle, dal pan di zucca al musichiere, dalle pizze alla nocciola a quelle di melanzane, le teglie dei dolci accolgono anche i “galucio” e le “bamboline”. Soltanto chi possiede una chioma bianca e chi è abituato a sfogliare le guide gastronomiche altolocate di Paolo Massobrio (che dei Tarraran ha fatto una importante tappa di gola felice) sa raccontare la storia di questi ingenui dolcetti di pasta di pane.
I Tarraran, eredi di un vecchio forno di borgata, famoso in tutta Pino grazie all’abilità di una intera generazione di panettieri (Giovanni conosciutissimo per la capacità di impastare e per l’empatia personale condita di burbere battute), con la nuova audace gestione del giovane Daniele aperto alle sperimentali innovazioni, ma anche ben consapevole della forza dirompente delle tradizioni, in pochi anni si sono imbiancati mani e capelli e, con molto entusiasmo, hanno ripreso a impastare pane e dolci, anche pescando nei segreti ricettari di famiglia e hanno regalato ai nuovi pinesi ( in paese ogni anno si festeggiano i nuovi residenti ) perfino i “galucio”, biscottoni spolverati di zucchero semolato, tanto amati dai bambini d’antan.
Diamo conto del nome con una piccola divagazione, molto alla buona, di antropologia contadina e con qualche cenno minimale di gastro-geografia della ruralità piemontese (e non solo). Dalla più lontana notte dei tempi il gallo, o meglio il galletto, è simbolo nelle campagne di virilità, di fecondità, di autorevolezza, di piacevole insegna del buonumore; e come tale lo ritroviamo sulle ceramiche popolari di Mondovì (oggi molto appetite dagli antiquari) e su quelle più ruspanti di Puglia; per non tacere poi del “coq”di Francia o del Portogallo, dove è diventato addirittura simbolo nazionale. Gli oggetti decorati con il pennuto in età giovanile, e dunque in esplosione di penne, colori, slancio, sono diventati occasione di buon augurio, di allegria, di prosperità, di festa.
Ecco spiegato il perché della tradizione contadina povera che vuole donare ai piccoli di casa un dolce semplice, poco costoso, ma decorato con il galletto: il “galucio” cioè, di pasta di pane, arricchito con poco latte e burro e spolverato appena appena di zucchero o spennellato con il tuorlo d’uovo (ma solo nelle occasioni importanti). Senza alcun tipo di fatica i pinesi di oggi possono pensare i maschietti dell’800 e del ‘900 ben impegnati a sbocconcellare con orgoglio il loro “galucio” per s. Andrea Corsini (patrono della parrocchia e anche del Comune) e per i giorni di marca o segnatempo atmosferico. E le bambine? Toccava anche a loro un pezzetto di “galucio”? Assolutamente no, una femminuccia non poteva stringere tra le mani né portare alla bocca un segno di virilità; e allora, sempre con la pasta da pane, ecco risolto il problema: si modellava alla buona una bambolina, con vestitino a gonna scampanata e tutto tornava a posto. Anche le Marie, le Giuseppine, le Rosette contadine avevano il loro dolce per i giorni speciali, anche solo per le domeniche.
A Pino funzionava così, ma non soltanto nel nostro paese: il “galucio”, magari con due pastiglie di menta al posto degli occhi o con due chiodi di garofano, apparteneva all’infanzia dell’intero Piemonte del sud, con il nome di “cicio d’ Capdan” e in questa occasione erano padrini e madrine a regalarli ai figliocci; o ancora cambiava nome nell’alessandrino e diventava bragton (braghettone); o tornava “galucio” a Casale. Con identico aspetto zoomorfo o antropomorfo (per le buate, le bamboline) era conosciuto, e molto apprezzato, dai bambini della Valle Stura che lo chiamavano pritin (spiritino). In Val Varaita, invece, diventava cicho sucrà e a Boves culumb.
Da bravi pinesi non possiamo tacere un riferimento medioevale al galletto: gli storici raccontano dell’abitudine antica di segnare i confini dei campi e i crocicchi con cumoli di pietre .Ebbene, nel nostro paese una via (oggi asfaltata, ma un tempo sentiero) porta il nome di Pietra del gallo e offre ai curiosi un grande masso che…forse…era inciso a forma di gallo. Per non parlare del riferimento evangelico a Pietro, traditore prima del canto del gallo.
Sia come sia, a chi ha la fortuna di vivere oggi a Pino raccomandiamo di concludere questa lettura con un buon “galucio” dell’Antico Forno di Valle Ceppi. Per trasformare le chiacchiere in gustoso assaggio.

Autore: Flavia Vaudano, Curatrice del museo