“RIPOSO DURANTE LA FUGA IN EGITTO” – olio su tela cm. 130 160 – Roma, Galleria Doria Pamphilj.

Pensieri di una ultranovantenne durante la pandemia in un pomeriggio uggioso del maggio 2021.

Quando sono di fronte ad un dipinto locato in sede museale, talvolta mi domando dove l’opera dovrebbe essere e per il “Riposo” penso ad una cappella anche non necessariamente barocca, sopra un altare semplice, ma dove le sue dimensioni siano in armonia con l’elemento spaziale e quello religioso.
La vita privata del Caravaggio, i suoi scatti improvvisi, il suo carattere difficile, le sue fughe sembrano difficili a cogliersi in quest’opera, forse perché i sogni della sua giovinezza non sono ancora assopiti. Qui Caravaggio ostenta in modo quasi eclatante come egli sappia cimentarsi con il suo pennello, come elementi di analisi e di sintesi si amalgamino lontani da passioni scomposte, umanamente malvagie. Qui ogni aspetto (quasi categoria pittorica) è espresso con cura come si volesse elencare elementi diversi ma fondamentali di fronte ai quali l’osservatore dovrebbe misurarsi.
caravaggio 2L’aspetto trascendentale (l’Angelo), il senso della santità in chiave ancora umana con il Vecchio che regge lo spartito musicale, la Madre in chiave di fedeltà assoluta, il bimbo piccolissimo lontano dal suo destino di sofferenza per i peccati degli uomini e, per non trascurare nulla di questa nostra Madre Terra, anche il quadrupede dall’occhio vivido. Tutto partecipa alla scena fino alle erbe e ai sassi in basso. Mi piace osservare Maria, assopita con il capo leggermente piegato in avanti come appesantito da una folta chioma. Il piccolissimo bambino in braccio a lei è molto grazioso, sono pochi i pittori che hanno saputo dare a questi esserini fattezze umane belle e reali. I più ci hanno presentato dei bambini con qualcosa di vecchio e sotto il profilo esclusivamente religioso un Bambino già troppo consapevole del suo ruolo con una manina benedicente e con l’altra che detiene un simbolico globo, quindi un uomo bambino rappresentato come simbolo.
Questo non qui, non è da Caravaggio. E ancora il tutto è come incorniciato da un paesaggio (elemento assai raro nelle opere del Nostro) che qui dolcemente illumina in alto uno squarcio di cielo e in basso un terreno naturale anche di pietre. Qui nella semplicità di un trasferimento forse anche angoscioso di gente modesta c’è in ogni elemento una cura cui la violenza caratteriale del pittore dell’essere in contrasto con se stesso e con il mondo paiono pacificarsi di fronte ad un attimo di giovinezza non ancora perduto con le illusioni intatte ed il tutto sembra dirci con tono fermo ed anche un po’ superbo “e io non sono degno di portare una spada?”, mentre la luce (fedele complice del pittore) non ancora sconvolgente come sarà in seguito, si esprime come elemento già presente nella sua tecnica fondamentale.
Caravaggio ha pagato un prezzo altissimo per i suoi errori, ma io, ora, spero che l’attimo del suo spirito ritrovi nelle tragedie del suo destino futuro un ricordo come momento indimenticabile di pace proprio in quest’opera.
Mi piace pensare che, alla fine dei suoi giorni, solo, sulla spiaggia di Porto Ercole durante i sui ultimi momenti, febbricitante, nel suo delirio, abbia ricordato questa pittura della sua giovinezza e da essa abbia ricevuto come una estrema consolazione per cui “il morì malamente come male aveva vissuto” non suoni come un’implacabile condanna, ma come inizio di redenzione nell’eternità.
Io amo tanto quest’opera perché riporta anche l’ambiente agricolo della mia adolescenza perché riavute la pace e la libertà dopo la grande tragedia del secondo conflitto mondiale, abbiamo avuto (per poco) l’illusione che il male si potesse vincere, che la violenza si quietasse e che le scelte errate (anche lontane nel tempo) potessero essere superate.
Questo resta un sogno forse irrealizzabile per il troppo egoismo umano, ma io oso sperare ancora in un futuro fiducioso e responsabile.
Qui, in questa tela, la calma, la musica, la tenerezza di una Madre sono talmente esposte da sembrare appaganti e così il ricordo del Pittore ci appare scevro da tanto male sofferto dalla sua e dalla nostra condizione umana.

Carla Quarello

CASCINA BERT di Torino

 

cascina bertUna iniziativa degli AMICI DELL’ARTE E DELL’ANTIQUARIATO con gli Amici di Pro Natura e del Lions Torino Monviso, in linea con il “nostro” ciclo sull’Ambiente, l’Uomo e l’Arte.
* Sabato 5 giugno 2021, ore 16,30, con ritrovo in piazza Crimea angolo strada Val Salice.
Paola Campassi, presidente di Pro Natura Torino, ci racconterà del recupero della cascina, del parco all’intorno… insomma una passeggiata in collina! (possibilità di organizzare passaggi in automobile). A conclusione, un simpatico aperitivo.
Per motivi organizzativi, è necessario prenotarsi al solito wa 3356784471 o direttamente a questa email entro mercoledì 2 giugno pv.
Vedi programma allegato: Visita alla Cascina Bert
Vedi locandina allegata: pieghevole cascina bert 2020

 

LE VILLE ROMANE DI ALMESE E CASELETTE riaprono per la prima volta nel 2021, a cura di Associazione Ar.C.A. Almese.

Vista dall'alto Villa romana di Almese* Domenica 23 maggio 2021, le ville romane di Almese e di Caselette riaprono per la prima volta nel 2021 per visite guidate e per scoprire come vivevano i romani in Valle di Susa nel primo secolo d.C.
La Villa romana di Almese sarà visitabile dalle 15,00 alle 18,00 con la prima visita in partenza alle 15,00 mentre la seconda è prevista alle 16,30: VRA_23052021-01 Almese
La Villa romana di Caselette sarà visitabile dalle 15,30 alle 18,30 con la prima partenza alle 15,30, la seconda alle 16,30 e la terza alle 17,30: VRC_23052021-01 Caselette
Prenotazione obbligatoria tramite e-mail a arca.almese@gmail.com o telefono al 342 060 13 65, dalle 14 alle 17.

In allegato, comunicato stampa: Comunicato stampa almese e caselette 23 Maggio 2021

In allegato calendario dell’intera stagione: CS Prima apertura 2021

Info:
AR.C.A. Almese – arca.almese@gmail.com – tel. 342 060 13 65

NELLA SICILIA SUD-ORIENTALE con Pro Natura Torino

Pro-Natura-Torino-Logo-200-x-150Dal 17 al 24 settembre 2021, NELLA SICILIA SUD-ORIENTALE, con Pro Natura Torino.

Vedi programma completo, in allegato: Pro Natura Viaggio in Sicilia 9-2021

DUE AMICHE IN CORSO MATTEOTTI, UNA CHE UCCIDE L’ALTRA, IL GIALLO CHE DIVISE I TORINESI NELL’ESTATE 1930, a cura di Massimo Centini.

La vicenda criminale che ha per protagonista Rosa Vercesi, ha tutte le peculiarità per essere il canovaccio di un noir d’altri tempi, con tutte le sue sfumature, con le sue ambiguità e inquietudini.
Accadde a Torino nel 1930, anno in cui morì Arthur Conan Doyle, il creatore di Sherlock Holmes: l’investigatore positivista protagonista di quattro romanzi e tanti racconti, dell’autore e apocrifi, nei quali non sfigurerebbe la vicenda Vercesi.
Comunque ci sono anche tutti gli estremi per trarre i tasselli di una “storia gialla” di quelle di una volta: quelle da feuilleton.
Ma la letteratura è finzione, perlustrazione intellettuale, anche gioco. La realtà è un’altra cosa: lì la violenza è vera, il sangue è sangue e alla fine non sempre i colpevoli sono assicurati alla giustizia.
vercesi 1Entriamo quindi nella realtà di una Torino degli Anni ruggenti, dominati da un ottimismo che poteva anche essere un modo per mascherare l’angoscia. È l’estate del 1930 e la scena del crimine è un’elegante palazzina di corso Matteotti 51, allora però si chiamava ancora corso Oporto e, come oggi, era un’area della città in cui vi erano palazzi abitati dalla borghesia, contrassegnati dalla figura dell’onnipresente portinaia, alla quale non sfuggiva nulla. Ed è proprio una portinaia la prima comparsa nella vicenda che ci accingiamo a raccontare.
Il suo nome era Teresa Caramagno, quel 19 agosto 1930, come ogni mattina, sul presto, era intenta a pulire le scale della casa e quando giunse al quinto piano fu colpita dalla porta dell’alloggio della famiglia Nicolotti: era socchiusa e con la luce all’interno accesa.
Non vi era alcun rumore che potesse tradire la presenza di qualcuno nel suo interno. La portinaia però non approfondì la questione. Avrebbe dovuto farlo, mezzora dopo, ma ancora non poteva saperlo.
Era ritornata in cortile quando nell’androne giunse il commesso de “La falena”, una bottega specializzata in biancheria e situato in via Santa Teresa 12, che Vittoria Nicolotti gestiva con una socia.
La signora Caramagno si ricordò della porta socchiusa e giunse alla conclusione che era necessario indagare. Risalì al quinto piano e entrò nell’alloggio… Scoprì subito la “signorina”: era sul letto, nuda, sul corpo una coperta. Era segnata da numerosi lividi e graffi, vi erano anche tracce di morsi: probabilmente l’omicidio fu preceduto da una lotta violenta.
Gli agenti di polizia, chiamati dalla portinaia, stabilirono che la donna era morta per strangolamento; poi ebbero modo di sapere, da alcuni inquilini del palazzo, che nel corso della notte furono udite delle donne litigare, qualcuno affermò anche di aver sentito dei lamenti e forse grida di aiuto. Nessuno di loro pensò però di risalire all’origine di quei rumori.
Mentre Vittoria Nicolotti, trentadue anni e un fisico da ragazzina, venne trasferita all’obitorio, gli inquirenti cercarono di individuare nell’appartamento qualche indizio che potesse indicare una traccia concreta da seguire. Nelle stanze regnava il caos: evidentemente la lotta e poi la ricerca di qualcosa, da parte dell’assassino, avevano messo tutto a soqquadro, rendendo più difficile il lavoro degli agenti.
vercesi 2La Nicolotti fu uccisa quando in casa era sola: il padre era morto da alcuni anni, mentre la madre era ospite presso dei parenti sul Lago Maggiore e il fratello viveva a Chiomonte, in Valle di Susa, dove lavorava come capostazione.
Indagando sulla ristretta cerchia di conoscenze, saltò fuori che la vittima doveva trascorrere la serata del 19 agosto (quando venne uccisa) con l’amica Rosa Vercesi. Un indizio prezioso che poteva rivelarsi di grande interesse per ricostruire le ultime ore di Vittoria.
Le Vercesi venne avvicinata dagli agenti nel suo alloggio di via Madama Cristina: si dimostrò un “po’ strana”, ma sulle prime non sembravano esserci elementi per allertare i poliziotti. La donna li seguì in commissariato portandosi dietro la pelliccia: un fatto molto insolito se si considera che era agosto e il termometro, a Torino, raggiungeva anche i 35 gradi, con punte di 40!
In questura la Vercesi non ebbe difficoltà a ricostruire la serata trascorsa con l’amica: una rapida cena consumata nella casa di corso Oporto, poi in tram per andare a Parco Michelotti, lungo il Po, tra il ponte di piazza Vittorio e quello di corso Regina Margherita, per assistere a uno spettacolo di varietà.
Durante il percorso, le donne si resero conto che ormai era troppo tardi e quindi decisero di scendere, all’altezza della stazione ferroviaria di Porta Nuova, per fare due passi. Per un momento pensarono di concludere la serata al cinema, ma poi l’idea fu abbandonata perché la pellicola proiettata al “Cinepalazzo” (in seguito diventato il “Corso”), Jim Mistero, non era di loro gradimento.
Venne così stabilito di rientrare a casa della Nicolotti, a piedi. La ricostruzione era credibile: infatti, il cinema si trovava a due passi dalla stazione ferroviaria, dove le donne erano scese dal tram. Inoltre, anche i tempi indicati dalla Vercesi erano compatibili con l’itinerario seguito. Dal cinema, situato in via Carlo Alberto, all’angolo con corso Vittorio Emanuele II, le donne avevano seguito l’illuminata arteria fino a corso Re Umberto, dove svoltarono a destra e in breve giunsero in corso Oporto. Le donne salirono in casa, Rosa e Vittoria avrebbero dovuto parlare di affari…
Infatti la Vercesi, che oggi sarebbe indicata come un “consulente finanziario”, svolgeva il delicato compito di gestire i beni bancari della vittima.
In parole povere parlarono di soldi, argomento che, come è ben noto, spesso è destinato a degenerare in discussioni e litigi. Quella sera invece non ci furono screzi, almeno questa fu la versione fornita dalla Vercesi.
Disse anche che quando uscì dalla casa in compagnia dell’amica, che la volle accompagnare al tram, notò un uomo davanti al portone. Dal mezzo pubblico, osservò Vittoria rientrare con quell’uomo misterioso… Forse era lui l’assassino?
Di certo si trattava di qualcuno che Vittoria conosceva molto bene, in caso contrario non si poteva comprendere per quale motivo l’avrebbe fatto entrare a quell’ora di notte.
Mentre Rosa Vercesi proponeva la sua versione, le indagini necroscopiche stabilirono che Vittoria aveva lottato con forza contro il suo aggressore: ne erano traccia concreta le piccole parti di pelle e di sangue coagulato presenti sotto le unghie della vittima.
Gli inquirenti decisero di ricercare sul corpo della Vercesi delle escoriazioni e ferite da relazionare a quelle rinvenute sul cadavere. L’idea del controllo incrociato sembrava quella vincente: infatti sul corpo della donna vi erano graffi e tagli, alcuni dei quali molto profondi,. La donna disse di essersi ferita cadendo in un cespuglio di rovi durante una gita con il fidanzato; poi si accusò anche una spilla mal fissata alla camicetta… Erano prove effettivamente un po’ debolucce e così venne trattenuta in carcere.
In realtà Rosa un ragazzo l’aveva, si chiamava Arturo Pistamiglio, lavorava alla Banca Commerciale Italiana: abitava a Pino Torinese e aveva una casa di campagna a San Michele di Bra, nel Cuneese. Non ebbe alcuna riserva nell’affermare che la donna era la sua fidanzata. Disse anche che loro, abitualmente, nei giorni festivi, avevano l’abitudine di trascorrere lunghe ora in barca sul Po, a Torino.
Mentre Rosa era alle “Nuove”, nella attesa che, in un modo o nell’altro, la situazione si sbloccasse, le venne trovata addosso una lettera che aveva scritto ai suoi familiari. Una lettera molto compromettente, poiché indicava come far sparire una prova.
Ecco il contenuto della lettera incriminata: “Appena vi sarà possibile avere le chiavi di casa mia, vi prego di far scomparire dalla plafonnière della mia camera da letto alcuni gioielli che vi ho nascosto e che aveva dimenticato la mia amica la sera che venne a casa mia. Lasciò la penna, dopo averla adoperata per scrivere un biglietto; l’anello se l’era tolto per lavarsi le mani e la spilla per togliersi l’abito. Quando siamo uscite, non ce ne siamo accorte subito. Ce ne siamo accorte quando eravamo già in corso Vittorio Emanuele, ma non siamo ritornate indietro perché era già troppo tardi.
La mia amica mi disse che li avrebbe potuti mettere coi titoli: sarebbe venuta a ritirarli mercoledì. Siccome c’erano sempre gli operai che giravano per la casa, li ho messi nella plafonnière per sicurezza. Dopo il fatto, data la mia posizione già tanto compromessa, non ho parlato per non aggravare la situazione. Speravo di uscire e di restituire alla famiglia ogni cosa. Ma oggi non lo posso fare perché mi attirerei una colpa che, lo giuro, non ho commesso. La mia buona azione potrebbe essere male interpretata (…) Se oggi mi trovassero quegli oggetti, mi farebbero andare all’ergastolo e la mia innocenza non varrebbe nulla (…) Distruggete questo biglietto, subito. Dopo aver avuto le chiavi, lasciate passare qualche tempo in modo che non corriate il rischio di essere sorpresi. E serbate il segreto più assoluto: badate a non dire nulla a nessuno, qualunque cosa accada. Data la mia posizione, devo negare a qualunque costo. Non dite nulla neppure all’avvocato, potrebbe fare la spia”.
Quella lettera costituiva un elemento di grande importanza per gli investigatori, soprattutto quando gli agenti ritrovarono i gioielli della Nicolotti nel lampadario della casa di via Madama Cristina.
Alla Vercesi venne chiesto perché avrebbe dovuto nascondere solo i gioielli dell’amica e non i propri: lei non ebbe difficoltà a dimostrare che ciò era determinato dal fatto che lei aveva da tempo affidato i suoi beni al Monte dei pegni…
In effetti la donna era in condizioni finanziarie drammatiche: senza un soldo, senza neppure quelli dell’amica di cui avrebbe dovuto essere l’oculata amministratrice.
In seguito, nel corso del processo, la Vercesi disse: “nella mia vita ho fatto tanti mestieri, prima in una ditta di radiatori, quindi in una fabbrica di scatole. Ho fatto anche la soffiatrice alla vetreria Zimbelli e per due anni mi sono occupata di corrieri. Da Arpino, invece ho fatto la magazziniera per quattro anni e poi la viaggiatrice per nove mesi. Fui impiegata da quattro anni da Genovesio e poi da Gilli. Infine, ho avuto funzioni di cassiera e poi di procuratrice nell’agenzia di cambio del ragionier Silvio Brena, fino al mese di febbraio del 1930. Mi erano corrisposte dalle 900 alle 1000 lire mensili e nel mio ufficio collaborai a operazioni per milioni di lire”.
Resta il fatto che quando la Nicolotti fu uccisa, la Vercesi, che si doveva occupare dei suoi beni, era totalmente priva di denaro. Forse, la notte dell’omicidio, Vittoria voleva indietro i suoi soldi. Rosa non era però in grado di far fronte agli impegni: probabilmente la causa dell’omicidio. Poteva essere una motivazione credibile: per i giudici fu l’unica.
Questa la ricostruzione dei fatti secondo l’accusa, poi avvalorata dalla giuria e dai giudici.
La Vercesi trascorse la notte in casa dell’amica – si disse che tra le donne vi fosse un legame saffico, ma su questo aspetto non vi è chiarezza – dopo averla uccisa, intorno alle sei del mattino, uscì di casa con un impermeabile con il bavero alzato e cappello. Aveva con sé anche il pentolino per il latte.
Si fermò al chiosco dei giornali e acquistò due quotidiani, poi andò verso il Parco del Valentino. Quando giunse in via Ormea, nascose in un portone l’impermeabile e le chiavi di corso Oporto; poi continuò fino al Parco, dove quasi certamente si liberò del resto del travestimento. Solo la borsetta venne ritrovata quasi subito da un uomo che aveva portato il suo cane a correre nei vialetti del Valentino. Quella borsetta apparteneva a Vittoria Nicolotti.
La Vercesi aveva quindi finto di essere la sua vittima, per riuscire a passare inosservata ed uscire dalla casa di corso Oporto senza destate sospetti. Certamente era riuscita nel suo intento, solo che, con grande superficialità, aveva lasciato dietro sé tracce facilmente individuabili.
Rosa Vercesi venne condannata all’ergastolo senza ottenere alcuna attenuante. La città era divisa tra innocentisti e colpevolisti: certamente sulla vicenda pesava non poco quello strano rapporto che legava le due donne. C’era qualcosa di perverso in quel crimine, un quid di alterità che faceva volare la fantasia e suscitava emozioni forti.
E altre emozioni forti sarebbero trapelate alcuni anni dopo: l’imputata avrebbe colpito la vittima, dopo aver assunto una forte dose di cocaina. La droga sarebbe stata fornita dalla Nicolotti che, sempre secondo la Vercesi, era considerava uno strumento di seduzione per attirare a sé l’ignara Rosa. Lei non volle che questa versione fosse portata in tribunale: sapeva dell’impossibilità di dimostrarla e quindi fece in modo che il suo avvocato ne parlasse solo in seguito.
Rosa affrontò con coraggio e rassegnazione il carcere: fu reclusa in alcuni istituti fino al 1959, quando ottenne la grazia. Aveva alle spalle quasi trent’anni di prigione.
Si trasferì a Trani dove, quando si trovava nel carcere di quella città, aveva stretto amicizia con una sorvegliante del penitenziario. Forse l’unica amica che aveva. Lì conobbe anche l’anziano zio della donna, con il quale si sposò nel 1962.
Tredici anni dopo rimase vedova, invecchiò precocemente, provata nell’anima e nel fisico. Morì nel 1981, nell’ospedale di Trani.
Morì sola e dimentica. Almeno questo era quello che credeva. Perché, come ha scritto Guido Cernetti in La vera storia di Rosa Vercesi e della sua amica Vittoria, la vita di questa donna è entrata in profondità nella memoria collettiva: “ha rotto la diga del perbenismo (…) chiamando su di sé la vendetta e la compassione a un tempo della Società, ha fatto parlare di lei giornali e cattedre universitarie, è diventata pupilla del tragico, un caso, il caso Vercesi, che con la sentenza non sarà chiuso”.

UNIVOCAonline – N. 2 del 26 aprile 2021

UNIVOCAonline – N. 2 del 26 aprile 2021 – L’informativa sul volontariato culturale e sul territorio
Trasmissione mensile online accessibile a tutti, su youtube e su facebook

Sommario:
Introduzione, a cura di Antonella Contardi,
Univoca Notizie online, Notizie da UNIVOCA e dalle Associazioni aderenti, a cura di Feliciano Della Mora;
Parliamo con…: Intervista ad Alessandro Gosztonyi de Gosztonyi es Krencs, presidente Associazione Dimore Storiche del Piemonte e Valle d’Aosta, a cura di Fabrizio Antonielli d’Oulx;
I Progetti di Univoca: il “Pronto Soccorso per i Beni Culturali”, a cura di Maria Luisa Reviglio della Veneria;
I Progetti delle Associazioni: il recupero della Chiesa di Santa Maria Maggiore in Borgo Vecchio ad Avigliana, a cura di Gigi Marengo;
Il Volontariato culturale racconta: il RUNTS – registro unico nazionale del Terzo Settore, a cura di Feliciano Della Mora;
Le Associazioni Univoca si presentano: l’Associazione Amici dell’Arte e dell’Antiquariato, a cura di Paolo Berruti.

 

Giusi AUDIBERTI. “Dietro a ogni grande uomo c’è sempre una grande donna” pittrice Daphne Maugham, moglie di Felice Casorati.

daphneDaphne Maugham nasce a Londra il 18 dicembre 1897, nipote per parte di padre dello scrittore inglese William Somerset Maugham, mentre discende da parte materna da una famiglia di pittori (suo nonno, Heywood Hardy, era un pittore piuttosto noto).
Il padre di Daphne era avvocato e diplomatico addetto all’ambasciata britannica a Parigi, la madre Mabel (chiamata in famiglia Beldy) era musicista e pittrice, la sorella Clarissa era anche lei pittrice e l’altra sorella Cynthia danzatrice classica, allieva di Alexandre e Clotilde Sakharoff.
La sua era dunque una famiglia dell’alta borghesia cosmopolita e colta, interessata particolarmente alle arti, che viveva a Parigi e trascorreva le vacanze vicino a Saint-Malo in Bretagna.
A Parigi la giovane Daphne frequenta la prestigiosa Académie Ranson diretta da Paul Sérusier e Maurice Denis (due fra i più importanti pittori “Nabis”)1 , poi segue le lezioni di un’interessante artista polacca, oggi dimenticata, Mela Munter. Compie contemporaneamente studi linguistici; nel 1921 espone un’opera al Salone d’Autunno di Parigi e l’anno successivo va a Londra per perfezionarsi alla Slade School of Arts dell’Università londinese.
Pur essendosi formata a contatto con la pittura impressionista e post-impressionista francese, Daphne conosce bene le tensioni classiciste che permeano in quel periodo la cultura europea.
Nel 1925 vede il ritratto di sua sorella Cynthia (che soggiornava a Torino per esibirsi nel teatro privato di Riccardo e Cesarina Gualino (2), ritratto dipinto da Felice Casorati, uno dei protagonisti di quello che veniva chiamato allora “Neoclassicismo” e rappresentava un “ritorno all’ordine”; Daphne decide allora di continuare i suoi studi sotto la guida di Casorati: si trasferisce perciò a Torino, alla fine del 1925 o agli inizi del 1926.
Raccontò Casorati: “Una trasformazione radicale doveva subire la mia vita… Non so in quale articolo di quel tempo ho lette queste parole: un angelo appare nei quadri di Casorati… Daphne viene nella mia casa e prende silenziosamente dolcemente semplicemente il suo posto accanto a mia Madre e alle mie sorelle… Credo che io – il suo maestro – abbia avuto da lei la migliore e più sana lezione umana ed artistica… Finalmente io e le mie care donne usciamo dalla vecchia casa perennemente fasciata di ombre e ci appartiamo a Pavarolo nella casetta bianca modesta modesta da cui non riusciremo mai a toglier l’odor di fieno e di stalla… Questa era la medicina mentis che invano avevo per tanto tempo cercata… stavo raggiungendo piano piano attraverso vicende di dolore e di gioia, attraverso l’ignoranza e la cultura, gli errori e le conquiste ma soprattutto attraverso la pittura la mia maturità umana. Ma certo da allora il mio lavoro diventa più sereno, più sicuro e più calmo… Ripresi la mia vecchia cassetta e ritornai, come ai tempi della fanciullezza a girovagare per le composte ordinate dignitose colline di Pavarolo. Ammiravo Daphne che dipingeva con semplice gioia – la gioia le trasfigurava il viso – i suoi piccoli paesaggi. Essa viveva momenti di vero rapimento, dimentica di sé, di me, di tutto…”.3
Nel 1926 Daphne Maugham diventa dunque allieva di Felice Casorati e frequenta il suo studio di via Galliari (frequentato anche, fra gli altri, da Lalla Romano, Albino Galvano, Sergio Bonfantini).
Casorati si dedica alla scuola con grande generosità, per lui l’insegnamento é un modo di conoscere meglio se stesso, ma soprattutto ama vedere i suoi allievi crescere e formarsi autonomamente: “Mi é sempre piaciuto insegnare – dirà il pittore in un’intervista del novembre 1962 – avere vicino a me dei giovani che ascoltano la mia parola, dei giovani che vedo incominciare a dipingere, e poi vedo come si sviluppa a poco a poco questa forza intima…”.
E generosamente Casorati invita i suoi allievi a partecipare alle proprie mostre. Così, tiene con loro (e fra essi con Daphne) una collettiva a Milano nel 1929, un’altra nel 1930 a Genova e nello stesso anno espone nella stessa sala con loro alla Biennale di Venezia.
In quell’occasione Daphne presenta “Persone nello studio” accanto a “La lezione” del suo maestro Casorati.
Ha scritto Elena Pontiggia (nel catalogo della mostra “Arte in due”, Torino Palazzo Cavour, 2003): “Il soggetto dei due quadri é lo stesso, la scuola, e identico é l’ambiente rappresentato: lo studio torinese di via Galliari, affacciato su una casa dal tetto triangolare. Nell’opera di Daphne le reminiscenze casoratiane sono molte, come si vede soprattutto nella modella sdraiata, nella donna sulla seggiola e nella natura morta sul tavolo. Eppure c’é una sostanziale differenza fra i due dipinti. In Casorati la composizione é centripeta, si concentra sulla figura del pittore, che é il vero protagonista della scena e compare con la tavolozza davanti al cavalletto. In Daphne invece la composizione é centrifuga: al centro dell’immagine non c’é il pittore… e l’attenzione é rivolta all’insieme delle figure che entrano nello studio. L’atelier si apre fino a includere le case del quartiere, una donna sulla soglia, il giornale… Se per Casorati lo studio é un tempio, per Daphne é un crocchio di persone, un frammento di esistenza.”
Se é dunque evidente nella pittura di Daphne l’influsso casoratiano, tuttavia la pittrice sviluppa negli anni successivi una sua vena individuale e si avvicina ai “Sei di Torino”4 , approfondendo la sua ricerca sul colore.
Nel 1928 Casorati aveva dipinto un importante ritratto della sua allieva Daphne Maugham: una giovane donna che siede assorta, collocata come una statua in una nicchia sullo sfondo di una tenda; il rotolo di carta alla sua destra allude allo studio di un artista, l’album di fotografie posato accanto a lei raccoglie un vivace gruppo di figure. Il dipinto unisce l’atmosfera rarefatta dell’atelier all’insinuarsi in essa dei richiami della vita.
Il 9 luglio del 1930 Felice Casorati e Daphne Maugham si sposano; nel 1934 nasce il loro unico figlio, Francesco.
Il periodo in cui Daphne entra nella vita di Casorati alla fine degli anni Venti vede un sensibile cambiamento nella ricerca pittorica dell’artista piemontese. Lo stesso Casorati ha dichiarato: “Attorno al ’28 la mia pittura sembra aver subito una specie di lavacro… Il colore, se non ancora vivace é indubbiamente più chiaro, più limpido, più accogliente… Sembrò allora che io avessi scartato ogni schema formale per abbandonarmi alle lusinghe di una piacevole colorazione”.
Verso il 1929 il periodo “neoclassico” casoratiano va esaurendosi, e i suoi soggetti dal contorno preciso e nitido, le sue modelle simili a statue si ammorbidiscono in linee più morbide e sfumate, mentre il mondo isolato e quasi asettico dell’ atelier si apre a immagini della vita quotidiana e i colori si fanno più caldi e luminosi.
Un esempio di questo cambiamento é “Aprile” (esposto alla Biennale del 1930): una giovane donna é colta nell’intimità della toeletta mattutina, in un contesto di grande semplicità e in un atteggiamento del tutto quotidiano.
Quanto all’attenzione al colore in questa fase del suo percorso artistico, Felice Casorati può giungere a esiti pittorici affidati unicamente alla ricerca cromatica, come in “Varigotti” del 1930. Aprendo una breve parentesi, osserviamo come il delizioso borgo ligure (già molto amato da altri pittori) sia stato prediletto da Felice e Daphne Casorati per le loro escursioni o i loro soggiorni marini: ne é testimonianza, per esempio, una foto che li ritrae sorridenti, con una coppia di amici, sulla spiaggia varigottese nei primi anni Trenta.
Certamente il mutamento della pittura di Casorati in questo periodo non é riconducibile a un unico fattore, né a un unico influsso (tantomeno di una sola persona): tutta l’arte italiana alla fine degli anni Venti tende a un ritorno al pittoricismo e a un avvicinamento all’arte europea, soprattutto a quella francese. Tuttavia, fra le molteplici componenti che determinarono il cambiamento di gusto e di poetica di Casorati non si può prescindere dal ruolo che ebbe la presenza accanto a lui di Daphne Maugham, con la sua cultura europea: lei, inglese di nascita e francese di formazione.
Non a caso nel 1935 (un anno dopo la nascita del figlio Francesco), Felice Casorati dichiarò: “Vorrei dipingere persone e cose semplicemente come le vivo e le amo: i miei sforzi d’oggi sono quindi intesi a liberarmi da tutte le teorie, le ipotesi e gli schemi, i gusti, le rivelazioni, e le restaurazioni dei quali con generosa avidità si é avvelenata la mia giovinezza”.5
Daphne ha certo influenzato il marito con le sue qualità pittoriche e la sua cultura europea, ma lo ha fatto in particolare nelle opere en plein air.
Timida e riservata per carattere, Daphne Maugham é comunque vissuta un po’ nell’ombra del marito, anche quando la loro casa era un importante centro della vita intellettuale e artistica di Torino, frequentata da Lionello Venturi, Carlo Levi, Mario Soldati, e dai musicisti Casella e Ghedini.
E’ stato Lionello Venturi a insistere sull’importanza e sul significato del lavoro artistico della Maugham nell’ambito dell’arte italiana del secondo dopoguerra, scrivendo nel Catalogo di un’esposizione di pittura italiana a Londra nel 1946: “Daphne Maugham ha apportato la sua ampia conoscenza delle tendenze artistiche internazionali alle ricerche italiane.”
La sua carriera di pittrice é segnata da numerose esposizioni pubbliche, anche di rinomanza internazionale: ha esposto alla Biennale di Venezia molte volte fra il 1928 e il 1950, alla Quadriennale di Roma fra il 1935 e il 1965 e a Pittsburgh dal 1928 al 1939, oltre a molte gallerie private, ottenendo numerosi premi.
Il figlio Francesco, anch’egli pittore, ha ricordato che l’insegnamento della pittura ricevuto dalla madre é stato fondamentale per lui dal punto di vista tecnico, e che la madre era assai più disponibile del padre, che invece difendeva gelosamente il suo isolamento nell’ atelier e il suo bisogno di concentrazione.
Della madre, Francesco Casorati ha rilevato il legame con la pittura dal vero e il lavoro col modello, e se pure ha riconosciuto il forte influsso di Casorati su di lei, ha sottolineato che la madre si era comunque molto avvicinata ai “Sei di Torino” e aveva conosciuto anche momenti di rifiuto della lezione casoratiana.
Tuttavia il figlio ha raccontato che Casorati aveva grande stima della moglie come pittrice, che non aveva nei suoi confronti il minimo senso di superiorità e che chiedeva spesso il suo consiglio, per esempio per la scelta delle opere da esporre in una mostra: “ne aveva insomma una profonda considerazione intellettuale”.
Un simpatico ricordo del figlio Francesco é quello dei genitori che andavano insieme a dipingere in campagna, nei dintorni dell’amata Pavarolo.
Daphne Maugham ha continuato sempre a dipingere, per tutta la sua vita, anche dopo la morte del marito (avvenuta nel 1963), come non aveva interrotto il lavoro artistico dopo la nascita del figlio.
La pittrice é morta a Torino, dopo una lunga malattia, nel 1982.

1 Col nome “Nabis” si indica un gruppo di artisti parigini dell’avanguardia post-impressionista, attivi alla fine del XX e all’inizio del XXI secolo; i capifila del gruppo furono Sérusier e Denis. I Nabis attribuivano importanza soprattutto alla disposizione dei colori, mentre i soggetti (pur essendo in secondo piano) si riferivano prevalentemente a temi della quotidianità.

2 Riccardo Gualino (Biella 1879- Firenze 1964) é stato imprenditore, mecenate e collezionista d’arte : amico del critico Lionello Venturi, fu sostenitore di artisti come Felice Casorati e i “Sei di Torino”; raccolse un’importante collezione, la cui sezione di arte antica fu donata alla Galleria Sabauda di Torino; condivise con la moglie Cesarina il mecenatismo e la passione per il teatro. Avverso al fascismo, fu inviato al confino; rilasciato nel 1933, fu a Parigi e poi si stabilì a Roma. Si occupò anche di cinema, e produttori come Carlo Ponti e Dino De Laurentiis lo considerarono il loro maestro.

3 Conferenza tenuta a Pisa il 26 maggio 1943.

4 La definizione si riferisce a un gruppo di sei pittori formatisi a Torino alla scuola di Casorati, che nel periodo 1928-1931 seguirono un percorso artistico comune. Si tratta di Gigi Chessa, Carlo Levi, Nicola Galante, Francesco Menzio, Enrico Paulucci e Jessie Boswell (l’unica donna del gruppo). I “Sei di Torino” furono stimolati dai critici Edoardo Persico e Lionello Venturi e sostenuti finanziariamente dal collezionista Riccardo Gualino. La loro parola d’ordine era “Europeismo” ed essi presero le distanze dall’arte di regime, retorica e nazionalista; la loro scelta estetica confluiva in quella politica.

5 Catalogo Quadriennale di Roma, 1935.

Lettura proposta dall’Associazione AMICO LIBRO.

Valter GIULIANO. L’ambiente e la sindrome del geometra.

Pro-Natura-Torino-Logo-200-x-150Un nuovo appello per l’ambiente
Tra i firmatari ci sono i più beni nomi dei protagonisti delle battaglie per l’ambiente sostenute nel nostro Paese negli ultimi decenni. A chiamarli a raccolta Gianluigi Ceruti, accovato, già vicepresidente di Italia Nostra, da sempre sostenitore dell’istituzione del Parco nazionale del Delta del Po, poi parlamentare dei Verdi e padre di quella legge quadro sulle aree protette che l’universo degli ambientalisti e degli scienziati italiani attendeva da decenni…

Leggi tutto nell’allegatoL ambiente-e-la-sindrome-del-geometra

Lì, 8 marzo 2021

 

CORSO PER NUOVI VOLONTARI CULTURALI

UNIVOCA Immagine corso Vol Cult 2021Un percorso di formazione, informazione ed orientamento per i volontari nei beni culturali.

Il corso si articolerà in 10 incontri settimanali di un’ora ciascuna da svolgersi i martedì sera alle ore 20,30 con collegamento on line alla piattaforma ZOOM di Agorà del Sapere.
Inizio del corso: martedì 20 aprile.

Il percorso sarà suddiviso in tre parti:

  • Perché fare volontariato nei beni culturali? Che caratteristiche sono richieste agli aspiranti volontari. Percorso introduttivo su volontariato e beni culturali (4 incontri);
  • In quali contesti è possibile operare e quale deve essere il rapporto con le Istituzioni. Alcune testimonianze ed esperienze di volontariato attivo in Regione (3 incontri);
  • In quale associazione fare volontariato e con quali competenze? Le associazioni aderenti ad Univoca si presentano per consentire una scelta mirata ai singoli partecipanti (3 incontri).

Il programma completo si trova nell’allegato: UNIVOCA Corso Volontari Culturali 2021

Per partecipare è necessario compilare la “scheda di iscrizione” allegata: UNIVOCA_SK Iscrizione Corso Vol Cult 2021 ( da inviare entro il 17 aprile 2021, a: info@univoca.org)

Il corso è gratuito. E’ richiesta la continuità di frequenza e la presenza in video.

Agli iscritti verranno inviate le coordinate per collegarsi alla piattaforma zoom.

Per informazioni ed invio “scheda iscrizione”: info@univoca.org

Allegata “Informativa ai sensi dell’Art. 13 del DGPR 2016/679: UNIVOCA_PRIVACY Iscrizione corso 2021-signed

Allegata locandina: UNIVOCA Locandina Corso Nuovi Vol Cult

 

 

 

 

CACCIA AL TESORO VIRTUALE – Edizione speciale “Feste Pasquali”

Gli AMICI DELL’ARTE E DELL’ANTIQUARIATO hanno indetto una CACCIA AL TESORO VIRTUALE – Edizione speciale “Feste Pasquali” – …si gioca anche a Pasqua!

Vedi allegato: PASQUAA_ CACCIA AL TESORO

Inviare le soluzioni a: info@amicidellarteedellantiquariato.it

UNIVOCAonline – N. 1 del 22 marzo 2021

UNIVOCAonline – N. 1 del 22 marzo 2021 – L’informativa sul volontariato culturale e sul territorio
Trasmissione mensile online accessibile a tutti, su youtube e su facebook
Sommario:
Presentazione, a cura di Feliciano Della Mora;
Univoca Notizie online, Notizie da UNIVOCA e dalle Associazioni aderenti, a cura di Feliciano Della Mora;
I Progetti di Univoca: Presentazione Corso di Introduzione al Volontariato Culturale, a cura di Salvatore Ivan Raffaele, presidente Associazione Mio MAO,
I Progetti delle Associazioni: Caccia al Tesoro Artistica online, a cura di Edoardo Berruti, Associazione Amici dell’Arte e dell’Antiquariato;
Parliamo con…: Intervista a Luca Mana, Direttore Fondazione Accorsi Ometto, a cura di Fabrizio Antonielli d’Oulx;
Il Volontariato culturale racconta: Giovanni Saccani, presidente Comitato di Torino della Società Dante Alighieri presenta il progetto “Dante 700”;
Le Associazioni Univoca si presentano: Fabrizio Antonielli d’Oulx presenta l’Associazione Amici della Sacra di San Michele.

 

UNIVOCAonline – L’informativa sul volontariato culturale e sul territorio.

Trasmissione mensile online accessibile a tutti

Redazione: Della Mora, Berruti, Antonielli, Reviglio, Contardi, Monzeglio
Organizzazione:
– Contardi Antonella – conduttrice
– Monzeglio Gabriella, Della Mora Feliciano – supporto tecnico
– Della Mora Feliciano – Univoca Notizie
– Reviglio Maria Luisa, Berruti Paolo – progetti Univoca
– Della Mora Feliciano, Reviglio Maria Luisa – progetti e presentazioni delle Associazioni
– Antonielli Fabrizio – parliamo con .., interviste
– Contardi Antonella – la voce dei giovani
– Della Mora Feliciano – il volontariato culturale racconta.

ARGOMENTI GENERALI
– Iniziative e progetti UNIVOCA
– Iniziative e progetti delle Associazioni aderenti (presentate a cura delle stesse associazioni),
– Informazioni in diretta su tematiche o argomenti di interesse generale,
– Incontri ed interviste con personaggi della Cultura, Enti pubblici e non,
– Interviste con Associazioni Culturali varie (Centro Studi Piemontesi, Tav. Rotonda, ecc.),
– Interviste a Giornali, Riviste, Media, ecc..
– Le Associazioni UNIVOCA si presentano (in diretta o registrate a cura delle stesse),
– Altre tematiche coerenti con scopi e finalità delle Associazioni culturali e di UNIVOCA (preventivamente comunicate e valutate dalla Redazione),
– La voce dei giovani.

 

CACCIA AL TESORO VIRTUALE – Edizione Speciale 8 marzo.

Gli AMICI DELL’ARTE E DELL’ANTIQUARIATO hanno indetto una versione della “CACCIA AL TESORO VIRTUALE – Edizione Speciale 8 marzo”

Le soluzioni saranno “svelate” sabato 13 marzo p.v., ore 12,00, con il solito collegamento Zoom: il link sarà comunicato in prossimità dell’evento.

Vedi allegato: CACCIA AL TESORO festa donna

LYNN MARGULIS, vita di una scienziata eretica.

Lynn Margulis merita un posto d’onore tra i grandi biologi del Novecento ma non troverete articoli scientifici con il suo vero nome – Lynn Petra Alexander – perché ha firmato tutti i suoi lavori con il cognome dei suoi due mariti: Sagan e, appunto, Margulis.
lynnNata nel 1938 a Chicago da genitori ebrei non ortodossi, padre avvocato proprietario di una fabbrica di vernici per auto e madre direttrice di un’agenzia di viaggi, è una ragazza curiosa, intelligente e ribelle, proprio come sarà da adulta, con capelli bruni lunghi e uno stile hippie. Sulle scale dell’Istituto di Matematica dell’università di Chicago si imbatte in un giovane bello dagli occhi chiari che ha appena ottenuto un master in fisica. Scambiano qualche parola, si rivedono, si innamorano. Lui non è un ragazzo qualsiasi. E’ Carl Sagan, diventerà l’ispiratore dell’esplorazione del sistema solare, il profeta della ricerca di forme di vita extraterrestri e una star televisiva della divulgazione scientifica. A 19 anni Lynn lo sposa.
La scoperta dell’endosimbiosi
Passata all’Università del Wisconsin, Lynn frequenta il corso di genetica. La attraevano gli animaletti microscopici. Inizia dalle amebe, passa ad altri protisti, poi all’alga verde Euglena. Dalle osservazioni trae una intuizione eretica, frutto del pensiero divergente che la guiderà per il resto della vita, fino a quando l’eresia non sarà più tale ma diventerà un dato di fatto dell’evoluzione biologica riconosciuto dalla comunità scientifica. L’idea è che antichissimi microrganismi elementari due miliardi di anni fa si sono integrati in cellule più evolute che dalla endo-simbiosi traggono vantaggio. Lo dimostrano i cloroplasti, che nelle piante sono i laboratori della fotosintesi, e i mitocondri, organelli dotati di un loro DNA che svolgono per la cellula evoluta la funzione di centraline energetiche. Il materiale genetico è la “pistola fumante” dell’origine autonoma degli organelli cellulari ma il DNA dei cloroplasti verrà scoperto più tardi perché all’epoca dell’intuizione di Lynn mancavano le tecnologie per metterlo in evidenza.
Lotta ostinata
I primi quattro articoli che annunciano la nuova prospettiva biologica escono con la firma Lynn Sagan. Nel 1964 i due divorziano senza interrompere saltuari contatti. Carl Sagan sposa l’artista Linda Salzman, che incide la placca con il videomessaggio delle sonde “Pioneer” (1972) e collabora al disco messo a bordo delle “Voyager” (1977). Nel 1981 Carl divorzia di nuovo e sposa la scrittrice Ann Druyan. Intanto Lynn si batte per sostenere la sua eresia incontrando molti ostacoli, sia perché l’idea che l’endosimbiosi abbia un ruolo determinante nell’evoluzione è rivoluzionaria sia perché almeno fino al 1990 per le donne è stato difficilissimo pubblicare su riviste scientifiche. Ciò nonostante, nel 1971 il mensile di divulgazione alta “Scientific American” pubblica l’articolo “Symbiosis and Evolution”, e con la sua traduzione in italiano esordisce Adriana Giannini. Allora dirigeva “Le Scienze” Felice Ippolito, Adriana Giannini ha da poco pubblicato “Lynn Margulis. La scoperta dell’evoluzione come cooperazione” (L’asino d’oro, 2021, 152 pagine, 15 euro).
La rivelazione del microbioma
All’inizio degli Anni 70 Lynn studia un curioso protista ciliato che vive in acqua dolce, lo Stentor coeruleus. Si muove agitando cilia e microtuboli. Le cilia, se tagliate, si rigenerano: Lynn ipotizza che siano vestigia di forme viventi primitive. D’altra parte, lo Stentor, tagliato in due o tre pezzi, rigenera l’organismo completo con la sua strana forma a trombetta. Non solo: l’alga verde Chlorella, ingerita dallo Stentor, sopravvive dentro l’ospite nutrendosi dei suoi rifiuti metabolici. Dunque un individuo simbionte può trasmettere interi gruppi di geni all’altro simbionte. E’ una pietra miliare nella scoperta dell’importanza ubiqua del microbiota, e quindi del microbioma (l’insieme dei loro geni) che tutte le forme viventi evolute hanno nel loro apparato digerente.
L’incontro con Lovelock
Un incontro importante per Lynn è quello con uno scienziato ancora più indipendente di lei, il chimico inglese James Lovelock, che lavora per la Nasa escogitando strumenti per individuare microrganismi viventi o fossili su Marte con le sonde Viking. Ne nasce una collaborazione stimolante su temi di comune interesse. Lynn, diventata signora Margulis, ospita Lovelock. E gli salva anche la vita facendogli impiantare, dopo un malore, il pacemaker che tuttora gli permette di essere attivo all’età di 101 anni. Longevità che a Lynn è mancata: nel 2011 una emorragia cerebrale l’ha portata via ai suoi quattro figli e al mondo della ricerca.
Il periodo italiano
L’ultimo periodo scientifico di Lynn Margulis coincide con vari passaggi in Italia che la portano a collaborare con Claudio Bandi e Luciano Sacchi (Università di Pavia), scopritori del primo batterio intra-mitocondriale mai descritto. La vita ormai si rivela una matrioska di microorganismi. La collaborazione tra Luciano Sacchi e Lynn Margulis, grazie a immagini di microscopia elettronica ad altissima risoluzione, porta alla scoperta dell’origine batterica delle ciglia in organismi simbionti delle termiti. Partecipa alle ricerche anche Massimo Pajoro dell’Università di Milano. Adriana Giannini riporta una pagina in cui Pajoro racconta l’esperienza esaltante della “caccia” in un laghetto vicino alla casa di Lynn a esemplari di Pectinatella magnifica, minuscoli invertebrati acquatici che vivono in colonie gelatinose di milioni di briozoi simbionti di batteri fotosintetici. Per inciso, questa residenza presso Amherst, sobborgo di Boston, per Lynn fu un rifugio amatissimo perché confinava con la casa dove nell’Ottocento era vissuta Emily Dickinson, la sua poetessa preferita. Quando perse conoscenza per l’ictus all’emisfero cerebrale sinistro, quello della parola, cercarono di risvegliarla leggendole delle sue liriche.
Microrganismi al centro
L’esistenza della Margulis è stata straordinaria e feconda. Con uno sguardo d’insieme, conclude Adriana Giannini, “Il merito fondamentale di Lynn è stato quello di aver messo al centro di tutte le forme di vita i microrganismi da cui tutto, uomo compreso, ha avuto origine e da cui tutti gli esseri viventi dipendono”.
La nuova biologia del XXI secolo riprende il cammino partendo da questa eredità.

Piero Bianucci

IL CICLISMO E CRIMINE – Il cicloanthropos secondo Lombroso, di Massimo Centini.

Cesare Lombroso (1835-1909) fu uno scienziato curioso, molto attento a quanto lo circondava e interessato a osservare la società per cogliere aspetti che eventualmente gli avrebbero consentito di corroborare le sue tesi sull’uomo delinquente, sll’atavismo, ecc. ecc. Abbiamo un esempio lampante di questa attenzione di Lombroso nel mare magnum che costituisce la sua bibliografia, costituita da studi scientifici e saggi per riviste accreditate, ma anche da molti articoli per riviste popolari e di grande diffusione. In questo poliedrico universo ci imbattiamo in uno scritto alquanto originale che ancora una volta dimostra l’eclettismo dello studioso: “Il ciclismo nel delitto”…

Leggi tutto nell’allegato: Il ciclismo e crimine

CACCIA D’ARTE DI SAN VALENTINO

Gli AMICI DELL’ARTE E DELL’ANTIQUARIATO hanno organizzato una edizione speciale della “Caccia d’Arte di San Valentino“, rigorosamente virtuale, sulla piattaforma Zoom dell’Agorà del Sapere.
Tutti possono partecipare e aspettiamo le risoluzioni entro lunedì 15 febbraio, ore 18.
Le soluzioni, con Edoardo Berruti saranno svelate martedì 16 febbraio ore 18,30, collegandosi a zomm, con le seguenti coordinate:
ID: 95986949062 – PW: 009733 oppure Invito: https://zoom.us/j/95986949062?pwd=M1VYWmJwWG03YUMrQ1hPQVgrbUJOdz09

In allegato le schede da indivuduare le risoluzioni ed inviare alla mail: info@amicidellarteedellantiquariato.it

Allegato: CACCIA AL TESORO san valentino

Ulteriori informazioni

 

AMICO LIBRO. Pagine di lettura.

Oggi proponiamo due brevi storie che hanno come elemento di congiunzione ARTE COME SALVEZZA
Ci e’ sembrato importante fare un’unica presentazione delle due realta’ per evidenziare come l’arte, in tutte le sue manifestazioni, puo’ accompagnare e dare significato alla vita delle persone anche in situazioni difficili.

Vedi allegato: Le Cose Che Non Sai

 

LIBANO. L’incredibile sito archeologico di Baalbek.

Quello di Baalbek è uno dei siti archeologici più importanti presenti sul vasto spazio terrestre. Si trova nella fertile valle della Beqa in Libano, a circa 65 km ad est della capitale Beirut. Le monumentali rovine di Baalbek sono solitamente attribuite all’Impero Romano, poiché per un certo periodo esso vi stanziò e vi costruì alcuni importanti monumenti.
La storia di Baalbek però è molto più antica e abbraccia vicende che si susseguirono per più di 5.000 anni. Si sa ad esempio che nel 2.000 a.C. Baalbek era abitata dai Cananei, identificati dai greci come i Fenici, che costruirono vari monumenti tra cui un altare e un santuario dedicato al dio Baal. Baal era la divinità principale appunto dei Fenici ed una delle più importanti in assoluto di tutto il vicino Oriente antico. Esso era Dio della tempesta, dei tuoni, della fertilità e dell’agricoltura. Era anche il signore indiscusso della Valle della Beqa, che è ancor oggi una delle principali zone di agricoltura di tutto il Libano. I Cananei erano soliti dedicare a Baal rituali di vario genere come anche sacrifici, per aggiudicarsi i favori del dio, poiché era comune convinzione che in questo modo Baal avrebbe inviato nella zona con continuità abbondanti piogge in modo da rendere fertile e rigogliosa la valle stessa.
baalbeck 1Nel 334 a.C. Alessandro Magno conquistò Baalbek ed iniziò il processo di ellenizzazione dell’area. Dopo la morte di Alessandro Magno furono i Tolomei d’Egitto ad occupare Baalbek e ribattezzarla col nome di Heliopolis, “la Città del Sole”.
Furono proprio i Tolomei ad identificare il dio Baal con il dio egizio Ra e il dio solare Helios, creando così una forma ibrida di culto del dio Giove, conosciuto in quel periodo come “Giove Eliopolitano”.
I Tolomei costruirono anche un importante tempio al cui all’interno veniva ospitato un santuario in cui si facevano oracoli a scopo di divinazione. Durante l’epoca ellenica fu costruito anche un podio che doveva ospitare un altro piccolo tempio che però non venne mai portato a termine. Fu in epoca romana infine che Baalbek raggiunse il suo massimo splendore.
Nel 47 a.C. Giulio Cesare si stabilì nella città e ordinò la costruzione di tre grandiosi templi che furono eretti in onore delle principali divinità del “Pantheon” romano, ovvero Giove (Dio del cielo e del tuono), Bacco (Dio dell’agricoltura e del vino) e Venere (Dea dell’amore e della bellezza). Non troppo lontano dalla città, sulla cima di una collina, fu installato un piccolo tempio in onore del Dio Mercurio, divinità molto cara ai Romani.
Uno dei più grandi misteri del sito di Baalbek riguarda le fondamenta che servirono d’appoggio al monumento principale, il “Tempio di Giove”. Questo elegante e sofisticato tempio poggia infatti su un colossale terrazzamento di circa 465.000 metri quadri, costituito da tre mastodontici blocchi di pietra che misurano 5 metri di altezza, 20 metri di lunghezza, 3,6 di larghezza e dal peso superiore alle 800 tonnellate ciascuno.
baalbeck 3Lo strato di supporto in pietra presenta sotto ai tre megaliti è costituito anch’esso da un elevato numero di blocchi dal peso di 350 tonnellate ciascuno e larghi oltre 11 metri. Questi impressionanti megaliti, tagliati e squadrati in un modo che non trova spiegazioni logiche nemmeno oggi, sono stati posti ad un’altezza di oltre 10 metri. Nonostante l’immane dimensione, sono stati lavorati ed uniti l’uno accanto all’altro all’interno del basamento su cui è stato eretto il tempio di Giove con un livello di precisione tecnologica così alta che, se non fosse per la presenza visibile dei tagli della pietra, sarebbe quasi impossibile distinguere la fine di un blocco e l’inizio di un altro.
Il terrazzamento conosciuto come “Trilithon” è probabilmente opera di una civiltà dalle avanzatissime capacità tecnologiche in campo edilizio, la quale anticipò di svariati millenni i successivi stanziamenti operati dalle altre culture che costruirono anch’esse i loro monumenti nel sito, così come precedette di svariati millenni anche la costruzione dei templi (seppure anch’essi di grande impatto) costruiti dai Romani.
È noto in primo luogo che i Romani non erano assolutamente dotati di attrezzature tali da poter tagliare, spostare, alzare e assemblare pietre da 800 e più tonnellate ciascuna. In secondo luogo, è ampiamente riconosciuto che questo grande impero nella sua millenaria storia (che a noi è ben nota per altri e familiari motivi) non costruì mai architetture megalitiche in nessuna parte del mondo.
baalbeck 4I più grandi “misteri” di Baalbek però riguardano senza ombra di dubbio tre impressionanti blocchi di pietra che furono scoperti nei pressi del sito a più riprese nel corso del tempo. Uno di questi è il famosissimo blocco di pietra lavorato e squadrato che si trova ancora parzialmente attaccato ad una cava di calcare, dove fu abbandonato a 1 km. di distanza dal tempio di Heliopolis, diverse migliaia di anni fa. Questo gigantesco blocco, la cui lunghezza è di 22 metri e il cui peso è all’incirca di 1000 tonnellate (ci sono stime molto differenti tra di esse che vanno dalle 1.000 alle 2.000 tonnellate, ma di sicuro si tratta di qualcosa di mostruosamente pesante) viene comunemente chiamato dagli estimatori occidentali “Monolito di Baalbek”, mentre per le popolazioni di lingua araba essa è “Hajjar el-Houble”, ovvero “La roccia della partoriente”, ed è sicuramente uno tra i più grandi blocchi di pietra che siano mai stati lavorati nella storia della Terra.
Nel 1990, in uno scavo archeologico condotto nella stessa cava, fu rinvenuto un secondo monolite dalla forma perfettamente rettangolare, e con un peso stimato di 1.242 tonnellate, così da renderlo addirittura più pesante della già impressionante “Roccia della partoriente”. Ma quello che ha lasciato sbigottiti e increduli i ricercatori e più in generale gli osservatori di tutto il mondo è senza dubbio il terzo monolite ritrovato in ordine cronologico ma non di importanza, rinvenuto nell’estate del 2014 grazie ad una spedizione archeologica voluta e organizzata dal dipartimento di orientalistica del “Deutsches Archäologisches Institute”: questo sensazionale e smisurato reperto chiamato “La Pietra di Janeen” è lungo 20 metri, largo 6 e profondo 5 metri, dal peso incredibile di 1.665 tonnellate, ed è ad oggi, per quanto ne sappiamo, il più grande blocco di pietra esistente sulla faccia della Terra. Purtroppo la divulgazione scientifica e la storiografia ufficiale non sapendo come manipolare questo ed altri scomodi reperti hanno affibbiato loro il termine di “misteri”, un’operazione sicuramente abile ed astuta ma certamente alquanto scorretta. La presenza dei megaliti di Baalbek, così come quella di moltissime altre opere architettoniche sparse in ogni punto del pianeta, sono un mistero soltanto per chi vuole ritenerli tali, ma in realtà la presenza di reperti storici realizzati con una tecnologia avanzata millenni prima dell’era cosiddetta “moderna” non è affatto un mistero, bensì la prova reale e tangibile dell’esistenza di avanzatissime società antidiluviane che abitarono la Terra millenni prima della comparsa delle nostre culture perfino le più antiche. Una realtà tenacemente negata e taciuta dalla storiografia ufficiale che come al solito cerca di occultare, mistificare, nascondere, interpretare e falsificare (vedere le tante false attribuzioni illogiche operate dall’Accademia stessa) per mantenere a tutti i costi a galla alcuni dogmi che si dimostrano più filosofici che scientifici ma razionalmente nonché materialmente infondati, costruiti a tavolino nel lontano Settecento senza però sottoporli alla necessaria verifica che non può essere divisa dalla dura e faticosa ricerca sul campo. Il risultato è che i dati di realtà – storici, archeologici, della tradizione letteraria e della stessa esperienza dei siti di monumenti – sconfessano quella stessa faticosa costruzione storiografica. Insomma, se la realtà smentisce clamorosamente la ricostruzione storica qualcosa di strano ci dev’essere.
§Autore: Giuseppe Di Re                                                                                                                                                                                                                               Fonte: www.immagineperduta.it, 25 mar 2017

Vedi anche il filmato: Baalbekhttps://www.youtube.com/watch?v=X68piYCpsHA

ed anche “Risolto uno dei maggiori enigmi legati al colossale Tempio di Giove a Baalbek”https://www.adnkronos.com/archeologia-risolto-lenigma-del-tempio-di-baalbek_5XRh8HZdNA4u1I06BHrkxe che riporta:

baalbek 2Si tratta di un tempio famoso in tutto il mondo per le sue dimensioni e la sua architettura megalitica ma numerosi misteri ancora lo avvolgono. Oggi però grazie ad uno studioso italiano, è stato risolto il mistero, uno dei più grandi legati all’antichissimo edificio, che riguarda la posa delle sue fondamenta e la datazione precisa delle fasi di costruzione.
I romani sicuramente eressero le 12 mastodontiche colonne nel 60 d.C. circa, ma chi posò le massicce pietre delle fondamenta? Giulio Magli, professore di Archeoastronomia al Politecnico di Milano, nel suo studio pubblicato nel volume scientifico Archaeoastronomy in the Roman World data anche la fase megalitica agli architetti erodiani, risolvendo così l’enigma delle fondamenta megalitiche del Tempio.
Magli giunge alle sue conclusioni grazie all’archeoastronomia. Nel suo studio, l’archeoastronomo del Politecnico di Milano rileva infatti come “il Tempio di Giove sia orientato verso il levare delle Pleiadi, un gruppo di stelle legato alla fertilità e al rinnovamento nel mondo greco-ellenistico: una scelta di orientamento che sarebbe insolita per un architetto romano”.
Magli evidenzia che ci sono chiare analogie architettoniche con le fondamenta erodiane del Monte del Tempio di Gerusalemme, visibili nel cosiddetto tunnel occidentale e formate da giganteschi blocchi di pietra molto simili a quelli della parte intermedia di Baalbek. Erode il Grande è una figura storica alquanto controversa. Tuttavia, la sua fama di grande costruttore è indiscussa e sembra proprio che sia possibile attribuire un altro capolavoro – oltre al Monte del Tempio, Masada e Herodion – alla lista delle sue realizzazioni architettoniche” evidenzia l’archeoastronomo.
Lo studioso del Politecnico di Milano spiega che l’edificio del Tempio di Giove a Baalbek “consiste in un enorme basamento circondato da un muro ancora più enorme. La progettazione di tale muro è impressionante: esso consiste nella sovrapposizione di blocchi di pietra sempre più grandi man mano che si sale. Giganteschi megaliti (di circa 500 tonnellate ciascuno) sostengono la parte superiore, costituita da blocchi ancora più incredibili (circa 4x4x20 metri e 1000 tonnellate). Altri enormi blocchi di pietra sono stati inoltre rinvenuti in una cava a poche centinaia di metri a sud-est”.
Il Politecnico di Milano ricorda che alcuni anni fa Andreas J. M. Kropp e Daniel Lohmann ipotizzarono che il basamento interno fosse stato inizialmente concepito e parzialmente costruito da Erode il Grande nel 15 a.C. circa. L’area, “non era sotto il diretto controllo di Erode, ma quest’ultimo era un amico dei romani che fondarono la colonia Berytus (Beirut) proprio in quegli anni”,tuttavia, Kropp e Lohmann non sciolsero il mistero” delle fondamenta megalitiche del Tempio. Un enigma, annuncia il PoliMi, risolto adesso dall’italiano Giulio Magli.

Fonte: www.adnkronos.com, 22 mag 2019

OBELISCHI. Turismo itinerante in Torino, a cura di Massimo Centini.

Si mette in rilievo che nel periodo in cui son stati costruiti gli obelischi e’ stato creato anche il “MUSEO EGIZIO” (1824) ed il tutto prima della nascita del “Regno d’ Italia”.
Come è ben noto, il legame di Torino con l’Egitto antico ha radici che affondano nella mitologia metropolitana e sono da sempre un richiamo irresistibile per gli appassionati delle leggende e soprattutto del legame della città subalpina con la terra dei faraoni.
In realtà abbiamo alcuni esempi per così dire di riflesso, con quella cultura lontana: si tratta degli obelischi. Chiariamo subito che parliamo di opere di origine locale, quindi non arrivati dalle città del Nilo attraverso impegnative opere di sradicamento e trasferimento via mare, come accadde nella Roma imperiale, che ne fece oggetto di ornamento dei monumenti cittadini.
Gli obelischi torinesi, realizzati sulla base del significato simbolico dei loro più antichi antenati, sono stati costruiti con gli stessi intenti celebrativi, anche se con un indirizzo di matrice laica. Ricordiamo che questo monumento monolitico è tipico dell’antico Egitto, dalla caratteristica forma quadrangolare allungata e sottile, terminante con una punta piramidale; sulle quattro facce si trovano iscrizioni riferite ai sovrani e alle divinità.
Diamo un’occhiata ai nostrani.

piazza savoiaObelisco in Piazza SAVOIA
Il primo, realizzato da Luigi Quarenghi, si trova in piazza Savoia e fu eretto il 7 maggio 1853 per celebrare l’abolizione dei tribunali ecclesiastici decretata con la Legge Siccardi del 1850.
Le Leggi Siccardi avevano lo scopo di “abolire i privilegi del clero cattolico: il foro ecclesiastico, un tribunale separato che sottraeva alla giustizia laica gli appartenenti alla Chiesa; il diritto di asilo, ovvero l’impunità giuridica di quelli che si rifugiavano nelle chiese; la manomorta, cioè l’inalienabilità dei possedimenti ecclesiastici. Le nuove leggi stabilivano il concetto della “legge uguale per tutti”.
Alla base del monumento, lato sud, spicca il motto “LA LEGGE E’ UGUALE PER TUTTI”, al lato nord compare la scritta “ABOLITO DA LEGGE 1850 IL FORO ECCLESIATICO .- POPOLO E MUNICIPII QUESTO MONUMENTO POSERO”
Sull’opera sono incisi i nomi dei numerosi di comuni che contribuirono all’erezione dell’obelisco.
Nella base furono murati alcuni oggetti dotati di un importante valore simbolico: una copia della Legge Siccardi, due numeri della “Gazzetta del Popolo”, alcune monete, un sacchetto di riso, una bottiglia di Barbera e una cassetta di grissini.

piazza crimeaObelisco in Piazza CRIMEA
L’altro obelisco, opera dello scultore Luigi Belli, eretto nel 1892 si trova alle pendici della collina, quando corso Fiume entra in piazza Crimea Il monumento celebra appunto la spedizione del corpo militare che, tra il 1855 e il 1856, sotto il comando del generale Alfonso Lamarmora, prese parte alla guerra di Crimea contro l’impero russo a fianco di Francia, Inghilterra e Turchia. Un’impresa bellica che costò la vita a circa duemilatrecento soldati (in verità più per colera che in battaglia).

piazza statutoObelisco in Piazza STATUTO
Spostiamoci adesso in piazza Statuto, dove troviamo l’“Obelisco Beccaria”, che fu collocato in quel luogo il 7 dicembre 1808, due mesi dopo dell’erezione di un monumento simile posto a Rivoli; il suo ruolo era quello di indicare il Gradus Taurinensis rilevato dal fisico Giovanni Battista Beccaria, vale a dire l’arco mediano passante tra i due obelischi.
Un’iscrizione posta alla base dell’obelisco ricorda l’avvenimento e la funzione del monolite: “La distanza fra i 2 obelischi e’ di metri 11793,60, altezza all’estremità torinese sul livello del mare allo zero dell’idrometro della darsena di Genova metri 245,65”.
Sul suo vertice si trova un astrolabio, che dona un certo non so che di astronomico, ma strizzando l’occhio all’astrologia.
Secondo la vulgata, l’obelisco di piazza Statuto era stato soprannominato “il paracarro”: epiteto che gli era stato affibbiato dai vetturini che con le loro carrozze, erano costretti ad aggirare quell’obelisco, da loro considerato del tutto inutile e addirittura pericoloso.
Per certi aspetti, un antesignano delle moderne rotonde…
Sull’obelisco di Rivoli, nella parte rivolta a Torino si legge la stessa iscrizione dell’obelisco di Piazza Statuto.

FRAGILITA’ E VIRUS, di Pietro Terna.

Con altri studiosi ho studiato la diffusione del virus SARS-CoV-2 e gli aspetti sociali e economici collegati. Si tratta di un medico, già professore di Biochimica clinica, e di un economista: Gianpiero Pescarmona e Giuseppe Russo. Le considerazioni che seguono sono in parte estratte dagli scritti di cui sono autore con loro. Quegli scritti possono essere letti in versione integrale a https://terna.to.it/modelInformativeArticles.html.
Abbiamo rivolto molta attenzione alle persone fragili e molto fragili (gli anziani in casa di riposo), da difendere e accudire; si sono lette cose inaccettabili sugli anziani, quasi che fosse una colpa esserlo: la vecchiaia è un fenomeno naturale molto positivo, perché significa che la vita si allunga. Poi ci sono tutti gli altri, cioè i fragili per via del lavoro in condizioni difficili, i poveri nutriti male e talvolta obesi, i pazienti curati con complesse terapie farmacologiche sintomatiche che alterano il loro metabolismo rendendoli più sensibile alle infezioni, le persone esposte a inquinanti di vario tipo. Avere un senso di colpa, se non li difendiamo, è assolutamente corretto.
Muoiono sempre gli stessi tipi di persone, che andrebbero curate singolarmente per ridurne la fragilità, ma che di fatto sono state trattate come un semplice numero di ricoveri in terapia intensiva o di decessi, in attesa del vaccino panacea. I fragili potrebbero essere trasformati in non fragili, con percorsi personalizzati, anche poco costosi. Ma chi ha la capacità e la forza di farlo?
Mettiamo alla prova tutto il ragionamento con una azione specifica, molto diretta e anche fattibile (probabilmente sarebbe stata sufficiente una circolare dell’INPS): i lavoratori in condizione di fragilità e che non posso scegliere il cosiddetto telelavoro, si assentano dal posto di lavoro in congedo per malattia.
Le strategie di difesa del sistema sanitario, economico e della vita delle persone dovrebbero quindi essere diverse. Secondo i nostri calcoli un giorno solo di lockdown durante la prima ondata costerà all’economia e alla società italiana 4,2 miliardi in due anni: ogni cinque giorni di fermo se ne è andato un punto percentuale di Pil. La metà durante la seconda ondata, ma sono sempre cifre enormi. Invece, togliere al virus la possibilità di fare i danni peggiori, ossia proteggere i lavoratori fragili nelle situazioni più rischiose, attraverso l’indennità di malattia, costerebbe 162 milioni al giorno. Inoltre, siccome i lavoratori fragili sarebbero sostituiti da lavoratori temporanei, la spesa dei redditi di quest’ultimi ridurrebbe il costo netto per l’economia e nel controllo dell’epidemia avrebbe avuto un effetto paragonabile al lockdown, Una somma quotidiana pari a 1/48 del costo del lockdown, ma che avrebbe permesso all’economia di affrontare la ripresa, anziché avvitarsi in una seconda, pericolosa, fermata. Anche questo è un modo per difendere i poveri, nella loro fragilità.
Mentre scrivo siamo a metà dicembre. Che cosa ci attende ora?
Da ottobre i casi di contagio sono giornalmente moltissimi e in questa seconda ondata la percezione dell’epidemia è individualmente molto più forte di quella della prima fase, in primavera. Tutti infatti conosciamo persone colpite più o meno gravemente. Che cosa è successo? L’epidemia stava estinguendosi all’inizio dell’estate, poi comportamenti molto imprudenti hanno permesso pochi, ma determinanti, nuovi contagi. I contagiati, spesso asintomatici, al ritorno dalle vacanze hanno ri-disseminato il virus, quasi come se fosse una nuova epidemia.
L’indice Rt ci dice quante persone possono essere contagiate da una sola persona, in media e in un certo periodo di tempo. Non è certamente l’unico indicatore da seguire, ma è molto importante e ci si deve preoccupare quando, dopo un periodo di diminuzione torna a aumentare, cosa che sta facendo in questi giorni.
Lo sta facendo non nei calcoli ufficiali, sempre molto in ritardo (di tre settimane), ma in calcoli ahimè molto sicuri di studiosi come Stefano Terna (il cognome denuncia la parentela con chi scrive), pubblicati quotidianamente aggiornatissimi a https://mondoeconomico.eu.
Autore: Terna Pietro – pietro.terna@unito.it

INCONTRI DI INFORMAZIONE ONLINE SUL “PRONTO SOCCORSO PER I BB.CC.”

cartolina amici arteCiclo di “Incontri di informazione on line” sul “Pronto Soccorso per i Beni Culturali” (https://www.univoca.org/category/pronto-soccorso/) per aggiornare tutti gli iscritti al “nucleo” di Pronto Soccorso per i Beni Culturali ed a nuovi volontari culturali sullo stato dell’arte dell’iniziativa e delle singole segnalazioni, di cui troverete notizia al link sopra indicato.

Incontri quindicinali a partire da lunedì 11 gennaio 2021, alle ore 21,00 online, secondo il programma completo in allegato: UNIVOCA Incontri informativi PS 2021

Info:
info@univoca.org – tel. 3333670926 – 3355489853

 

CACCIA ALL’ARTE DI NATALE, organizzata dagli AMICI DELL’ARTE E DELL’ANTIQUARIATO.

Vedi in allegato elenco delle immagini da scoprire: EDIZIONE NATALIZIA MANDATO CACCIA AL TESORO VIRTUALE

Comunicare e-mail e numero di cellulare all’indirizzo e-mail dell’associazione oppure direttamente ad Antonella (via s.m.s. o cell. 3356784471, o via e-mail: antonellacontardi@libero.it ) entro il prossimo venerdì 19 dicembre.

Domenica 20 dicembre 2020, ore 18,00, sempre sulla piattaforma ZOOM, le soluzioni della “Caccia all’arte di Natale” con Edoardo Berruti e gli immancabili auguri associativi 2020 con il Consiglio direttivo, il presidente e tutti i soci!!!
Ecco il link e i codici:
https://us02web.zoom.us/j/87428070254?pwd=V2RaYXlBTlpUOUowZmhrT2hOQ1lndz09
ID incontro: 874 2807 0254 PW: 574167

UNI.VO.C.A. si interroga sul proprio futuro dopo la pandemia.

logo-UNIVOCA20 ridDai temi emersi durante la Tavola Rotonda organizzata da UNI.VO.C.A. il 10/10/2020 e dai contributi dei partecipanti al Consiglio Direttivo del 20 novembre scorso, sono stati evidenziati alcuni punti ritenuti fondamentali.

Vedi allegato: UNIVOCA il futuro-signed

INCONTRI DI INFORMAZIONE on line su “Pronto Soccorso per i BBCC”

UNI.VO.C.A. ha organizzato un ciclo di “Incontri di informazione on line” sul “Pronto Soccorso per i Beni Culturali” (https://www.univoca.org/category/pronto-soccorso/) per aggiornare tutti gli iscritti al “nucleo” di Pronto Soccorso per i Beni Culturali ed a nuovi volontari culturali sullo stato dell’arte dell’iniziativa e delle singole segnalazioni, di cui troverete notizia al link sopra indicato.

cartolina amici arte* Lunedì 14 dicembre p.v. in diretta on line alle h. 18, incontro preparatorio con tutti gli iscritti ed i nuovi volontari culturali per illustrre il programma degli incontri, a cura di Feliciano Della Mora, presidente UNI.VO.C.A. e Maria Luisa Reviglio della Veneria, segretaria UNI.VO.C.A..

Collegamento Zoom – Progetto Agorà del Sapere – Univoca Torino: ID 95710852927 – PW: 662785 oppure
Invito:  https://zoom.us/j/95710852927?pwd=UWZ3blJFNHMvb0d2LzZmZ09ZdWI3QT09
A partire da lunedì 11 gennaio e fino a lunedì 29 marzo si susseguiranno sette incontri quindicinali di aggiornamento ed informazione.

Info:
info@univoca.org – tel. 3333670926 – 3355489853

Iscrizioni in corso, mediante invio di una e-mail (con cognome, nome, n. tel., indirizzo mail) a:
info@univoca.org, marialuisareviglio@gmail.com, valterbn@alice.it, sara.inzerra@gmail.com

In allegato programma degli incontri: UNIVOCA Incontri informativi PS 2021

IL LIBRO CUORE A TORINO fra fiction e realtà.

Cuore di Edmondo De Amicis, uno dei capisaldi insieme a Pinocchio e ai libri di Salgari della letteratura per l’infanzia non soltanto italiana, fu pubblicato da Treves nel 1886. Le vicende narrate sono ambientate nell’anno scolastico 1881/82 in una scuola elementare di Torino, identificata nel testo come “Sezione Baretti”. In realtà si tratta della Scuola Moncenisio che era collocata in via Cittadella 3, vicino all’abitazione di De Amicis e frequentata dai suoi due figli, Furio e Ugo.
Il legame del libro con la città di Torino è molteplice. Oltre alla scuola citata, abbiamo scelto per il fotoracconto altri tre luoghi emblematici: il primo, legato alla scuola del carcere delle Nuove, che testimonia l’interesse di De Amicis per le scuole con finalità sociali e assistenziali; il secondo, legato alla presenza significativa della vita militare sia nella biografia di De Amicis sia nel libro Cuore, attraverso la caserma Cernaia; il terzo che consente di rievocare un personaggio molto noto e popolare, che si colloca tra realtà e fantasia: la Maestrina dalla penna rossa.

Immagine del CUORE - ridotta (1)VIDEO di presentazione:
https://www.youtube.com/watch?v=h367oyCSI5s&list=PLChzRABYqLLfut7eor6BPwG2z8KASF8z8&index=1

IL LIBRO CUORE A TORINO TRA FICTION E REALTA’
Vedi allegato: IL LIBRO CUORE A TORINO TRA FICTION E REALTA

Fotoracconto sulla Torino del Libro CUORE
GALLERIE FOTOGRAFICHE:
1 – “Il libro Cuore e Torino. Tra fiction e realtà”. Caserma Cernaia – https://photos.app.goo.gl/1igwvuE7UWfJCdTk9
2 – “Il libro Cuore e Torino. Tra fiction e realtà”. Scuola Moncenisio – https://photos.app.goo.gl/ddZhFPb4ZWFsZp286
3 – “Il libro Cuore e Torino. Tra fiction e realtà”. Carceri Le Nuove – https://photos.app.goo.gl/pp3rmrFWPqkdFPodA
4 – “Il libro Cuore e Torino. Tra fiction e realtà”. La maestrina dalla penna rossa – https://photos.app.goo.gl/Y2xVrtTftmfWKdE69

 

UN MUSEO CHE RACCONTA STORIE di borghi, storie del cuore, a cura di Flavia Vaudano.

Alla scoperta di itinerari insoliti – Pino Torinese, paese della contadinanza

Un museo che racconta storie di borghi,storie del cuore.

Da quasi vent’anni vive a Pino Torinese un piccolo ” Museo delle Contadinerie “ e della cultura materiale, un museo che gioca le sue relazioni sul dinamismo del rapporto tra generazioni, che raccoglie oggetti di tradizione contadina senza criteri di bellezza espositiva, ma con l’ambizione di raccontare storie vissute di famiglia e di riprodurre gli ambienti reali della cascina,della scuola rurale, del paese contadino dall’ottocento in poi. Ogni piccola cosa esposta aggiunge sottovoce qualcosa per ridare vita alla devozione popolare della campagna, alla storia della piccola patria locale, ai suoi usi e costumi.
vaudano 2Quasi una sfida allo smarrimento della memoria perché i giovani scoprano che senza la ricerca delle radici non c’è futuro. Al ” museo delle contadinerie ” la raccolta, il restauro, l’ambientazione degli oggetti sono occasione di condivisione e di passione per l’uomo e per il suo ambiente naturale. Ci si può arrivare – e questo è solo un discorso da avviare al termine del confinamento da virus – lungo strade asfaltate e banali nella loro comodità,oppure con qualche disagio in più, affrontando sentieri nero-asprigni di more, divorati a mezzo dalla menta di strada e resi preziosi dal cremoso merletto del fior di sambuco; in questo caso, però,si deve partecipare a una delle tante camminate raccontate e con merenda contadina offerta che il Museo ha sempre organizzato e che riprenderà a proporre.
Il paese offre tanto di più: anche un Planetario con Museo dello spazio e una secentesca chiesa dell’Annunziata, scrigno di tesori che svariano dal Cristo ligneo del ‘400 a strepitosi stucchi dei Maestri luganesi (qui in cantiere tra Seicento e Settecento per impastare insieme artigianato e arte), dall’organo Vegezzi Bossi del 1858 alle oreficerie settecentesche, dai capolavori musivi della Scuola di Cartagine all’icona della Madonna incinta in foglia d’oro su tavola lignea.
Senza contare la dolce bellezza dei grumi di case seminate a spaglio sui declivi morbidi della bella collina e le villette a gregge nelle valli prative; e i borghi con i filari di vigna, arditi di affaccio sui sottili crinali che in controluce sembrano quasi appoggiati sul lontano Monviso.
Per un lieto futuro andare, con lento passo e fantasia sbrigliata, li ricordiamo tutti: S.Felice, che di maggio, all’improvviso, si fa bianco e rosso con le ciliegie, Centocroci con la sua eco inquietante di briganti e di agguati, di santi e piloni, Mongreno, appartata in meravigliose stradine di quiete, Podio, fiera dei suoi valori comunitari, la Balbiana, ancora frusciante di volpi, lepri e scoiattoli, il Satellite con le sue estrose intuizioni di architettura degli anni ‘60, il Centro con un sagrato aperto su 100 paesi dell’astigiano (servono occhi d’Argo e giornate di limpida magia), la valle dei Miglioretti con un antico affresco di cronaca sacra del 1676 e la valle dei Ceppi, quasi un paese dentro al paese, fiero del suo museo contadino.
Museo che ha deciso di scavare a fondo nei ricordi e nel cuore per regalare ai lettori cronache lontane e notizie di oggi per esplorare insieme le tracce gustose di una civiltà contadina che, in fondo, appartiene a ciascuno di noi.

STORIE PINESI : DAL “GALUCIO” A TANTO ALTRO
vaudano 1C’era una volta a Valle Ceppi un prato, il prato dei cannoni. Quelli di legno, siamo al tempo della seconda guerra mondiale, con la bocca di fuoco rivolta al cielo per ingannare gli aerei, americani o tedeschi non si sa, quelli che bombardavano per intenderci, senza sottilizzare se colpivano modeste abitazioni rurali o casolari rifugio di partigiani.
C’era una volta un prato ai Tetti Vasco, fiorito di giallo tarassaco e di blu salvia prativa.
C’era una volta un prato, campo di giochi per tutti i bambini della valle, dal mattino fino a sera, dopo la guerra s’intende.
E lì, tra capriole profumate di menta e filastrocche al sapor di sambuco, passavano veloci le ore belle di tre bambini, i Tarraran: Daniele, futuro diplomato alle Arti Bianche di Torino e poi giovane imprenditore di successo e le due sorelline gemelle, Adriana con un destino da ostetrica prima e suora alcantarina poi e Loredana, futura biologa e cavaliere della Repubblica per meriti scientifici.
Erano loro i bambini di una famiglia insolita, destinata a lasciare il segno nel piccolo borgo agreste, ma non troppo, visto che al tempo del “c’era una volta” ospitava un cinematografo e una fabbrica di fuochi artificiali.
Torniamo alla famiglia Tarraran che può vantare nella parentela materna una neurologa e una amministratrice d’azienda, senza contare un papà trasformato da metalmeccanico Fiat in esperto di panificazione. Una famiglia insolita, dicevamo, anche per l’innata umiltà che fino a pochissimo tempo fa vedeva al bancone, a servire una clientela sempre più numerosa e contenta, due laureate, sorridenti e gioiose.
E di sorridere vien proprio voglia se gli occhi cadono sulla scritta al posto di infornatura del titolare che dice ironicamente ”genio al lavoro”.
Ebbene, in questo speciale negozio, con il forno a vista e valanghe di pagnotte e pagnottelle, dal pan di zucca al musichiere, dalle pizze alla nocciola a quelle di melanzane, le teglie dei dolci accolgono anche i “galucio” e le “bamboline”. Soltanto chi possiede una chioma bianca e chi è abituato a sfogliare le guide gastronomiche altolocate di Paolo Massobrio (che dei Tarraran ha fatto una importante tappa di gola felice) sa raccontare la storia di questi ingenui dolcetti di pasta di pane.
I Tarraran, eredi di un vecchio forno di borgata, famoso in tutta Pino grazie all’abilità di una intera generazione di panettieri (Giovanni conosciutissimo per la capacità di impastare e per l’empatia personale condita di burbere battute), con la nuova audace gestione del giovane Daniele aperto alle sperimentali innovazioni, ma anche ben consapevole della forza dirompente delle tradizioni, in pochi anni si sono imbiancati mani e capelli e, con molto entusiasmo, hanno ripreso a impastare pane e dolci, anche pescando nei segreti ricettari di famiglia e hanno regalato ai nuovi pinesi ( in paese ogni anno si festeggiano i nuovi residenti ) perfino i “galucio”, biscottoni spolverati di zucchero semolato, tanto amati dai bambini d’antan.
Diamo conto del nome con una piccola divagazione, molto alla buona, di antropologia contadina e con qualche cenno minimale di gastro-geografia della ruralità piemontese (e non solo). Dalla più lontana notte dei tempi il gallo, o meglio il galletto, è simbolo nelle campagne di virilità, di fecondità, di autorevolezza, di piacevole insegna del buonumore; e come tale lo ritroviamo sulle ceramiche popolari di Mondovì (oggi molto appetite dagli antiquari) e su quelle più ruspanti di Puglia; per non tacere poi del “coq”di Francia o del Portogallo, dove è diventato addirittura simbolo nazionale. Gli oggetti decorati con il pennuto in età giovanile, e dunque in esplosione di penne, colori, slancio, sono diventati occasione di buon augurio, di allegria, di prosperità, di festa.
Ecco spiegato il perché della tradizione contadina povera che vuole donare ai piccoli di casa un dolce semplice, poco costoso, ma decorato con il galletto: il “galucio” cioè, di pasta di pane, arricchito con poco latte e burro e spolverato appena appena di zucchero o spennellato con il tuorlo d’uovo (ma solo nelle occasioni importanti). Senza alcun tipo di fatica i pinesi di oggi possono pensare i maschietti dell’800 e del ‘900 ben impegnati a sbocconcellare con orgoglio il loro “galucio” per s. Andrea Corsini (patrono della parrocchia e anche del Comune) e per i giorni di marca o segnatempo atmosferico. E le bambine? Toccava anche a loro un pezzetto di “galucio”? Assolutamente no, una femminuccia non poteva stringere tra le mani né portare alla bocca un segno di virilità; e allora, sempre con la pasta da pane, ecco risolto il problema: si modellava alla buona una bambolina, con vestitino a gonna scampanata e tutto tornava a posto. Anche le Marie, le Giuseppine, le Rosette contadine avevano il loro dolce per i giorni speciali, anche solo per le domeniche.
A Pino funzionava così, ma non soltanto nel nostro paese: il “galucio”, magari con due pastiglie di menta al posto degli occhi o con due chiodi di garofano, apparteneva all’infanzia dell’intero Piemonte del sud, con il nome di “cicio d’ Capdan” e in questa occasione erano padrini e madrine a regalarli ai figliocci; o ancora cambiava nome nell’alessandrino e diventava bragton (braghettone); o tornava “galucio” a Casale. Con identico aspetto zoomorfo o antropomorfo (per le buate, le bamboline) era conosciuto, e molto apprezzato, dai bambini della Valle Stura che lo chiamavano pritin (spiritino). In Val Varaita, invece, diventava cicho sucrà e a Boves culumb.
Da bravi pinesi non possiamo tacere un riferimento medioevale al galletto: gli storici raccontano dell’abitudine antica di segnare i confini dei campi e i crocicchi con cumoli di pietre .Ebbene, nel nostro paese una via (oggi asfaltata, ma un tempo sentiero) porta il nome di Pietra del gallo e offre ai curiosi un grande masso che…forse…era inciso a forma di gallo. Per non parlare del riferimento evangelico a Pietro, traditore prima del canto del gallo.
Sia come sia, a chi ha la fortuna di vivere oggi a Pino raccomandiamo di concludere questa lettura con un buon “galucio” dell’Antico Forno di Valle Ceppi. Per trasformare le chiacchiere in gustoso assaggio.

Autore: Flavia Vaudano, Curatrice del museo

QUADERNO DEL VOLONTARIATO CULTURALE N. 20

Anche il n. 20 dei Quaderni del Volontariato Culturale è online, vai alla pagina “Quaderni”

AMICI DEL MUSEO STORICO NAZIONALE D’ARTIGLIERIA – Appello.

Museo ArtiglieriaL’Associazione Amici del Museo Storico Nazionale d’Artiglieria si trova in un momento in cui ha bisogno dell’appoggio di tutti coloro che, conoscendo il pregio storico e scientifico del Museo, insostituibile patrimonio della città di Torino, ne auspicano la ripresa e la riapertura al pubblico.

L’APPELLO allegato spiega in che modo ognuno può dimostrare la sua solidarietà attraverso un contributo che non mira ad acquisire risorse economiche.

Vedi e scarica: Museo Storico Nazionale di Artiglieria

 

 

 

 

LA LOGGIA (To). Villa CARPENETO.

2017-carpenetto-con-Cappella-300x225Tra i secoli XV e XVI nella documentazione presente in vari archivi pubblici e privati è attestata l’esistenza di un piccolo castello in prossimità della riva destra del Torrente Ojtana nel tratto di confine col territorio di Vinovo, denominato Carpeneto. Tale edificio, forse una vecchia casaforte medioevale con torre, risultava rimaneggiato in forme seicentesche con alcuni cascinali attorno.

Leggi tutto nell’allegato: LA LOGGIA Villa Carpeneto

Autore: Gervasio Cambiano – cambianogervasio@gmail.com

Pubblichiamo la scheda relativa al complesso monumentale in località Carpeneto nel comune di La Loggia, opera dello storico locale Gervasio Cambiano. L’importanza della villa e il presente stato di abbandono hanno coinvolto anche il FAI – Fondo Ambiente Italiano che lo ha inserito nella lista dei “Beni del cuore”; analogamente il Comune di La Loggia è interessato alla vicenda del bene che è stato messo in vendita e si pone l’obiettivo di tutelare per la comunità un bene ambientale ed architettonico così importante.

Salviamo il Carpeneto.
“Ho scritto a Sos Monumenti per salvare il borgo del Carpeneto dal degrado, dall’oblio e dal nulla”. Lo storico e scrittore vinovese Gervasio Cambiano racconta il suo ultimo impegno, spiegando: “Il servizio è fornito dall’Univoca (Unione volontari culturali associati) torinese con cui collaboro, una sigla che raccoglie e coordina associazioni culturali di volontariato del territorio e finalizzate alla tutela e valorizzazione del patrimonio storico e culturale”.
La villa Carpeneto, in stile neobarocco, personalizzata da uno stile neoclassico di alta scuola, è in prossimità della riva del torrente Oitana, comune di La Loggia ma confinante con Vinovo. Attorno, il borgo con alcuni cascinali. Dichiarata Monumento nazionale, è di proprietà di una società svizzera, ma disabitata, priva di arredo ed abbandonata dagli anni ’60. c.t.
Info: www.univoca.org da L’Eco del Chisone, 20 dic 2017

Inviata segnalazione il 14 luglio 2018: UNIVOCA Villa Carpeneto La Loggia – Segnalazione-signed

Risposta della Prefettura di Torino in data 30 luglio 2018: Villa Carpeneto – Prefettura Torino

Risposta della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la Città Metropolitana di Torino in data 31 agost 2018: prot. 143470001 Sopr Villa Carpeneto

Ultime notizie (aprile 2020): la proprietà risulterebbe ancora facente capo alla famiglia dei Rossi di Montelera, che ora hanno domicilio in Svizzera e la villa è in vendita con commissione ad una società immobiliare russa.

Aggiornamento al 7 marzo 2021: Risulta in vendita su internet (organizzazione Mitula) a 2.900.000 €

Aggiornamento al 13 dic 2023: Carpeneto 13 X bre 2023

Bibliografia:
– Giuseppe Accorso. Ipotesi di riuso della villa Carpeneto, La Loggia. Rel. Enrico Moncalvo, Carla Bartolozzi, Andrea Vigetti. Politecnico di Torino, Corso di laurea magistrale in Architettura Per Il Progetto Sostenibile, 2014.

 

 

 

ALBANO VERCELLESE (VC). Il Castello in degrado.

albanoIl toponimo deriva forse da Albanus, nome personale romano; dell’epoca romana resta una tegola con iscrizione funeraria.
Dal X secolo, sotto l’episcopato di Attone, Albano risulta tra le pievi della chiesa vercellese; il possesso al Vescovo di Vercelli fu confermato coi diplomi imperiali di Ottone III (999) e di Federico Barbarossa (1152) fino al 1179, quando una parte venne ceduta al Comune di Vercelli.
Dopo esser stata proprietà di varie famiglie (Tizzoni, Avogadro, de Albano), nel 1335 Albano passò ai Visconti fino al subentrare dei Savoia (1407).
Nel 1621, per volere del duca Carlo Emanuele I, Albano (insieme ad Oldenico e Cascine San Giacomo) fu eretta contea di Mercurio Arborio di Gattinara, gran cancelliere di Carlo V d’Asburgo. Ancor oggi l’edificio del Castello appartiene alla famiglia Arborio di Gattinara.
Secondo gli storici, quando Albano si trovava sotto la dominazione del Comune di Vercelli, era circondato da uno spalto e da un fossato, lungo il quale venivano piantati cespugli spinosi; nel XIV – XV secolo venne edificato un vero e proprio castello.
ambano castelloAlcune notizie sullo stato del fabbricato nel 1671 ed in particolare l’esistenza di case rovinate fuori dal castello verso est, potrebbero attestare l’esistenza di un abitato a ridosso del perimetro fortificato, probabilmente un ricetto, la cui esistenza, allo stato attuale delle conoscenze, non è però documentabile.
Il castello venne ristrutturato nel XIX secolo, ma conserva parti antiche risalenti al XV secolo.
Di fronte alla chiesa parrocchiale ottocentesca si apre la via XX Settembre, che costeggia il muro esterno del castello. Il muro di cinta del giardino è di recente costruzione, ma vi sono ancora tratti delle cortine medievali.
Le parti antiche dell’edificio sono la bella torre d’ingresso a pianta quadrata, risalente alla metà del XV secolo, sopraelevata nel Seicento con una struttura che incorpora gli originari merli bifidi (ancora riconoscibili), fornita di torretta angolare cilindrica.
A testimonianza dell’importanza dell’antico edificio signorile, fonti documentarie attestano ancora nel Seicento la presenza di un fossato largo m 12, che circondava l’intero perimetro del castello, oggi colmato.

Purtroppo oggi (2021) gli edifici sono in stato di totale abbandono e fatiscenti.
Vedasi una dimostrazione: https://www.youtube.com/watch?v=UR5Db1ooQk8

Vedi anche, con ampia documentazione fotografia:
https://www.lorenadurante.it/2021/03/15/il-castello-di-abbandonato-di-albano-vercellese/  https://www.preboggion.it/CastelloIT_di_VC_Albano_Vercellese.htm

Bibliografia:
– Andrea Caligaris. La conservazione delle architetture di Mercurino Arborio Gattinara e della sua famiglia : ipotesi di progetto di restauro e di rifunzionalizzazione del convento dei canonici regolari lateranensi come caso studio. Rel. Emanuele Morezzi, Emanuele Romeo, Gabriele Ardizio. Politecnico di Torino, Corso di laurea magistrale in Architettura Per Il Restauro E Valorizzazione Del Patrimonio, 2015

Info: Comune. tel. 0161 73113

 * Invio Segnalazione a Prefetto Vercelli, Sindaco del Comune di Albano Vercellese, al Presidente Regione Piemonte, alla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Provincie di Biella, Novara, Verbano-Cusio-Ossola e Vercelli (11 giu 2021): UNIVOCA PS Castello Albano Vercellese

* Risposta Comune di Albano Vercellese (25 giu 2021): Risposta Comune Albano Verc.

* Risposta della Regione Piemonte (6 lug 2021): LetteraUNIVOCA_CastelloAlbanoVercellese

 

CACCIA AL TESORO ARTISTICA

Caccia al tesoro fotografica per le strade di Torino alla ricerca di 10 Opere Nascoste.
Un modo divertente, dinamico (ma sicuro) e stimolante per ri-scoprire Torino, i suoi spazi, i suoi monumenti, anche in un periodo di forzata lontananza dall’Associazione.
Il gioco diventa occasione di scoperta e riscoperta, in compagnia oppure in solitaria, di un rapporto diretto con le opere che ogni giorno sono sotto i nostri occhi, ma sulle quali forse non ci soffermiamo abbastanza…
Vi presenteremo l’iniziativa, utilizzando l’ormai collaudata e irrinunciabile piattaforma Zoom dell’Agorà del Sapere
* Sabato 7 novembre 2020, ore 11,00, online in diretta, ID: 97673839127; PW: 438277; oppure invito: https://zoom.us/j/97673839127?pwd=MmNYSGlvN09iUk5SVWxwN2dGeDIwdz09
Vedi tutte le modalità per partecipare: CACCIA AL TESORO ARTISTICA PDF
A conclusione, in condivisione con le altre associazioni di volontariato e con Univoca, abbiamo invitato Feliciano Della Mora, presidente di Univoca, per proporci alcuni spunti di riflessione e di suggerimenti anche alla luce di quanto è emerso durante l’interessante tavola rotonda dello scorso 10 ottobre, a conclusione della VI Settimana della Cultura di Univoca proprio sul tema “Associazioni, pandemia e futuro”.