UN MUSEO CHE RACCONTA STORIE di borghi, storie del cuore, a cura di Flavia Vaudano.

Alla scoperta di itinerari insoliti – Pino Torinese, paese della contadinanza

Un museo che racconta storie di borghi,storie del cuore.

Da quasi vent’anni vive a Pino Torinese un piccolo ” Museo delle Contadinerie “ e della cultura materiale, un museo che gioca le sue relazioni sul dinamismo del rapporto tra generazioni, che raccoglie oggetti di tradizione contadina senza criteri di bellezza espositiva, ma con l’ambizione di raccontare storie vissute di famiglia e di riprodurre gli ambienti reali della cascina,della scuola rurale, del paese contadino dall’ottocento in poi. Ogni piccola cosa esposta aggiunge sottovoce qualcosa per ridare vita alla devozione popolare della campagna, alla storia della piccola patria locale, ai suoi usi e costumi.
vaudano 2Quasi una sfida allo smarrimento della memoria perché i giovani scoprano che senza la ricerca delle radici non c’è futuro. Al ” museo delle contadinerie ” la raccolta, il restauro, l’ambientazione degli oggetti sono occasione di condivisione e di passione per l’uomo e per il suo ambiente naturale. Ci si può arrivare – e questo è solo un discorso da avviare al termine del confinamento da virus – lungo strade asfaltate e banali nella loro comodità,oppure con qualche disagio in più, affrontando sentieri nero-asprigni di more, divorati a mezzo dalla menta di strada e resi preziosi dal cremoso merletto del fior di sambuco; in questo caso, però,si deve partecipare a una delle tante camminate raccontate e con merenda contadina offerta che il Museo ha sempre organizzato e che riprenderà a proporre.
Il paese offre tanto di più: anche un Planetario con Museo dello spazio e una secentesca chiesa dell’Annunziata, scrigno di tesori che svariano dal Cristo ligneo del ‘400 a strepitosi stucchi dei Maestri luganesi (qui in cantiere tra Seicento e Settecento per impastare insieme artigianato e arte), dall’organo Vegezzi Bossi del 1858 alle oreficerie settecentesche, dai capolavori musivi della Scuola di Cartagine all’icona della Madonna incinta in foglia d’oro su tavola lignea.
Senza contare la dolce bellezza dei grumi di case seminate a spaglio sui declivi morbidi della bella collina e le villette a gregge nelle valli prative; e i borghi con i filari di vigna, arditi di affaccio sui sottili crinali che in controluce sembrano quasi appoggiati sul lontano Monviso.
Per un lieto futuro andare, con lento passo e fantasia sbrigliata, li ricordiamo tutti: S.Felice, che di maggio, all’improvviso, si fa bianco e rosso con le ciliegie, Centocroci con la sua eco inquietante di briganti e di agguati, di santi e piloni, Mongreno, appartata in meravigliose stradine di quiete, Podio, fiera dei suoi valori comunitari, la Balbiana, ancora frusciante di volpi, lepri e scoiattoli, il Satellite con le sue estrose intuizioni di architettura degli anni ‘60, il Centro con un sagrato aperto su 100 paesi dell’astigiano (servono occhi d’Argo e giornate di limpida magia), la valle dei Miglioretti con un antico affresco di cronaca sacra del 1676 e la valle dei Ceppi, quasi un paese dentro al paese, fiero del suo museo contadino.
Museo che ha deciso di scavare a fondo nei ricordi e nel cuore per regalare ai lettori cronache lontane e notizie di oggi per esplorare insieme le tracce gustose di una civiltà contadina che, in fondo, appartiene a ciascuno di noi.

STORIE PINESI : DAL “GALUCIO” A TANTO ALTRO
vaudano 1C’era una volta a Valle Ceppi un prato, il prato dei cannoni. Quelli di legno, siamo al tempo della seconda guerra mondiale, con la bocca di fuoco rivolta al cielo per ingannare gli aerei, americani o tedeschi non si sa, quelli che bombardavano per intenderci, senza sottilizzare se colpivano modeste abitazioni rurali o casolari rifugio di partigiani.
C’era una volta un prato ai Tetti Vasco, fiorito di giallo tarassaco e di blu salvia prativa.
C’era una volta un prato, campo di giochi per tutti i bambini della valle, dal mattino fino a sera, dopo la guerra s’intende.
E lì, tra capriole profumate di menta e filastrocche al sapor di sambuco, passavano veloci le ore belle di tre bambini, i Tarraran: Daniele, futuro diplomato alle Arti Bianche di Torino e poi giovane imprenditore di successo e le due sorelline gemelle, Adriana con un destino da ostetrica prima e suora alcantarina poi e Loredana, futura biologa e cavaliere della Repubblica per meriti scientifici.
Erano loro i bambini di una famiglia insolita, destinata a lasciare il segno nel piccolo borgo agreste, ma non troppo, visto che al tempo del “c’era una volta” ospitava un cinematografo e una fabbrica di fuochi artificiali.
Torniamo alla famiglia Tarraran che può vantare nella parentela materna una neurologa e una amministratrice d’azienda, senza contare un papà trasformato da metalmeccanico Fiat in esperto di panificazione. Una famiglia insolita, dicevamo, anche per l’innata umiltà che fino a pochissimo tempo fa vedeva al bancone, a servire una clientela sempre più numerosa e contenta, due laureate, sorridenti e gioiose.
E di sorridere vien proprio voglia se gli occhi cadono sulla scritta al posto di infornatura del titolare che dice ironicamente ”genio al lavoro”.
Ebbene, in questo speciale negozio, con il forno a vista e valanghe di pagnotte e pagnottelle, dal pan di zucca al musichiere, dalle pizze alla nocciola a quelle di melanzane, le teglie dei dolci accolgono anche i “galucio” e le “bamboline”. Soltanto chi possiede una chioma bianca e chi è abituato a sfogliare le guide gastronomiche altolocate di Paolo Massobrio (che dei Tarraran ha fatto una importante tappa di gola felice) sa raccontare la storia di questi ingenui dolcetti di pasta di pane.
I Tarraran, eredi di un vecchio forno di borgata, famoso in tutta Pino grazie all’abilità di una intera generazione di panettieri (Giovanni conosciutissimo per la capacità di impastare e per l’empatia personale condita di burbere battute), con la nuova audace gestione del giovane Daniele aperto alle sperimentali innovazioni, ma anche ben consapevole della forza dirompente delle tradizioni, in pochi anni si sono imbiancati mani e capelli e, con molto entusiasmo, hanno ripreso a impastare pane e dolci, anche pescando nei segreti ricettari di famiglia e hanno regalato ai nuovi pinesi ( in paese ogni anno si festeggiano i nuovi residenti ) perfino i “galucio”, biscottoni spolverati di zucchero semolato, tanto amati dai bambini d’antan.
Diamo conto del nome con una piccola divagazione, molto alla buona, di antropologia contadina e con qualche cenno minimale di gastro-geografia della ruralità piemontese (e non solo). Dalla più lontana notte dei tempi il gallo, o meglio il galletto, è simbolo nelle campagne di virilità, di fecondità, di autorevolezza, di piacevole insegna del buonumore; e come tale lo ritroviamo sulle ceramiche popolari di Mondovì (oggi molto appetite dagli antiquari) e su quelle più ruspanti di Puglia; per non tacere poi del “coq”di Francia o del Portogallo, dove è diventato addirittura simbolo nazionale. Gli oggetti decorati con il pennuto in età giovanile, e dunque in esplosione di penne, colori, slancio, sono diventati occasione di buon augurio, di allegria, di prosperità, di festa.
Ecco spiegato il perché della tradizione contadina povera che vuole donare ai piccoli di casa un dolce semplice, poco costoso, ma decorato con il galletto: il “galucio” cioè, di pasta di pane, arricchito con poco latte e burro e spolverato appena appena di zucchero o spennellato con il tuorlo d’uovo (ma solo nelle occasioni importanti). Senza alcun tipo di fatica i pinesi di oggi possono pensare i maschietti dell’800 e del ‘900 ben impegnati a sbocconcellare con orgoglio il loro “galucio” per s. Andrea Corsini (patrono della parrocchia e anche del Comune) e per i giorni di marca o segnatempo atmosferico. E le bambine? Toccava anche a loro un pezzetto di “galucio”? Assolutamente no, una femminuccia non poteva stringere tra le mani né portare alla bocca un segno di virilità; e allora, sempre con la pasta da pane, ecco risolto il problema: si modellava alla buona una bambolina, con vestitino a gonna scampanata e tutto tornava a posto. Anche le Marie, le Giuseppine, le Rosette contadine avevano il loro dolce per i giorni speciali, anche solo per le domeniche.
A Pino funzionava così, ma non soltanto nel nostro paese: il “galucio”, magari con due pastiglie di menta al posto degli occhi o con due chiodi di garofano, apparteneva all’infanzia dell’intero Piemonte del sud, con il nome di “cicio d’ Capdan” e in questa occasione erano padrini e madrine a regalarli ai figliocci; o ancora cambiava nome nell’alessandrino e diventava bragton (braghettone); o tornava “galucio” a Casale. Con identico aspetto zoomorfo o antropomorfo (per le buate, le bamboline) era conosciuto, e molto apprezzato, dai bambini della Valle Stura che lo chiamavano pritin (spiritino). In Val Varaita, invece, diventava cicho sucrà e a Boves culumb.
Da bravi pinesi non possiamo tacere un riferimento medioevale al galletto: gli storici raccontano dell’abitudine antica di segnare i confini dei campi e i crocicchi con cumoli di pietre .Ebbene, nel nostro paese una via (oggi asfaltata, ma un tempo sentiero) porta il nome di Pietra del gallo e offre ai curiosi un grande masso che…forse…era inciso a forma di gallo. Per non parlare del riferimento evangelico a Pietro, traditore prima del canto del gallo.
Sia come sia, a chi ha la fortuna di vivere oggi a Pino raccomandiamo di concludere questa lettura con un buon “galucio” dell’Antico Forno di Valle Ceppi. Per trasformare le chiacchiere in gustoso assaggio.

Autore: Flavia Vaudano, Curatrice del museo